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venerdì 16 settembre 2011

I fischietti dei Maestri cocciari di Ficulle (Terni) - Memorie e Suoni di Terra

Questo paese è legato alla lavorazione della terracotta da sempre. Lo testimonia il nome stesso: Ficulle. Nonostante lo stemma cittadino, il nome non ha niente a che vedere con l’albero di fico. Deriva invece dal latino figulus, figulo, ciò è vasaio. Quindi sembra che a fine X o nell’XI secolo, i primi insediamenti abitati di questo territorio si dedicassero alla lavorazione dell’argilla. Questo perché la zona è piena di giacimenti, e quindi qui nacquero una serie di insediamenti proprio per lavorare la terracotta.

Si calcola che negli anni ’30 nel paese ci fossero una quarantina di persone che lavoravano la terracotta. E tutta l’economia locale girava - oltre che attorno all’agricoltura - anche attorno alla terracotta. Perché c’era un indotto: chi si occupava di estrarre la materia prima, chi portava la legna per fare le cotture, chi andava a vendere i prodotti, e così via. Quindi erano in molti a lavorare nel settore”.

Sono parole di Fabio Fattorini, artigiano che ancora oggi perpetua la secolare tradizione di lavorazione della terracotta di questo paese dell’Umbria. Ci siamo rivolti a lui e a tre anziani Maestri artigiani di Ficulle per saperne di più sulla lavorazione della terracotta e naturalmente anche dei fischietti di questa zona. Il primo di questi maestri è Renato Cortellini, che da quasi 40 anni vive e lavora a Fabro, ma che proviene da una antica famiglia di cocciari di Ficulle, precisamente della frazione di San Cristoforo. Il secondo è Carlo Luciani, anche lui cocciaro da generazioni con bottega a San Cristoforo. In fine c’è il padre e maestro di Fabio, Carlo Fattorini.

Le prime domande che rivolgiamo a questi artigiani riguardano il legame – spesso molto antico - tra la loro famiglia e il mestiere del cocciaro, nonché le modalità del loro personale l’apprendistato. Una delle costanti che emerge nel loro racconto è il fatto di avere imparato i rudimenti del mestiere sin dalla tenera età.

Renato Cortellini: “Nella mia famiglia la tradizione di lavorare la terracotta è sicuramente molto antica. Noi pensiamo che risalga addirittura al ‘400. Infatti mio Nonno ha trovato un mattone della nostra bottega di Ficulle che riporta la data del 1412. Di sicuro c’è che la bottega di famiglia era attiva già dal 1770. E questo è documentato: è scritto sul diploma con cui mio babbo Cesare ricevette la medaglia d’oro per l’artigianato. [1]

Io ho sempre frequentato la bottega, da quando avevo 5 anni. Il Babbo mi comandava le piccole faccenduole. Poi andavo anche a scuola, ma all’epoca dopo la quinta elementare ti facevano smettere immediatamente. Peraltro io ero bravo, mi piaceva la scuola. Ma mi trovo contento di quello che ho fatto, mica mi lamento
”.

Carlo Luciani: “Ho imparato da piccolo, dopo che anche Luciano, mio fratello più grande, aveva imparato il mestiere dal Babbo. Poi quando a scuola ho chiuso la classe quinta, il Babbo mi ha detto: “c’hai voglia di studiare?” Ed io: “no!” “E allora ecco, vieni qui ed impara il mestiere”. Ho imparato su un tornietto piccolo, a pedale, che ancora conservo. E fino all’85 ho fatto questo mestiere, e lo rifarei volentieri, però non si può fare più, perché qui non si rinasce più”.

Carlo Fattorini: “Questa è stata sempre zona di cocciari da centinaia e centinaia di anni a questa parte, e se scaviamo sotto al paese troviamo tutti pezzi di cocci anche a un metro e mezzo di profondità. Ma nella mia famiglia io e mio fratello[2] siamo stati i primi. Avevo il Babbo che lavorava nelle botteghe, ma si occupava un po’ de aiutà, non sapeva tornì.

Ho imparato queste tradizioni antichissime quando ero molto giovane. Non è una cosa facile, ci vuole una vita per imparare, ed ancora devo finire di imparare, per essere onesto.
Io sono del '31, ed esattamente dall’età di 5 anni sono andato a bottega. Con me lavorava anche mio fratello, che è più grande di me di 4-5 anni.
Avevo un Maestro molto bravo, posso dire un amico. Ma bravo sul serio, non di quelli che si fanno chiamare maestri ma non sanno fare niente. Soprattutto, era bravissimo con il tornio, era un tornitore che faceva paura! Mi ha tirato su lui come io ho tirato su mio figlio. Si chiamava Rigo Sassetti, ed era del '4. Abbiamo sempre lavorato insieme fino a che, nel '63, quando lui è morto ed io ho continuato col Fratello."

Nel seguito della nostra chiacchierata, approfondiamo con i Mastri cocciai di Ficulle tutte le fasi della lavorazione della terracotta, dall’estrazione dell’argilla fino alla vendita dei prodotti, passando per la preparazione dei colori e la cottura.

L’estrazione e la preparazione dell’argilla

Fabio Fattorini: “Una volta l’argilla bisognava estrarla nelle cave. E non era una passeggiata: non c’erano ruspe, si faceva tutto a mano. Di solito trovavi uno sbanco di 3 metri, ma l’argilla buona - quella più azzurra, quella che ha la giusta resistenza nella lavorazione – era soltanto la parte di sotto. E allora andava estratta quella, mentre quella sopra non serviva a niente.
Quelli più coscienziosi toglievano la parte sopra e prendevano il cuore. Altre persone scavavano una galleria, per evitare di dover togliere 2 o 3 metri di terra sopra. Però era un metodo pericoloso, e negli anni ’50 c’è morta una persona qui a Ficulle. La galleria è crollata e lui è rimasto sotto. E da lì l’estrazione dell’argilla a Ficulle è andata diminuendo.

Noi ultimamente prendevamo gli scarti dei laterizi a Bettolle. Li c’è una grandissima produzione di laterizi, e noi prendevamo i mattoni rotti che venivano scartati prima di essere infornati. Non costavano niente, pagavi solo la ruspa e il camion. Quindi prendevi 400-500 quintali di argilla, la portavi nel terraio, poi la lavoravi con l’acqua, la battevi. Avevamo un cilindro fatto con i rulli del carro armato, proprio una cosa molto artigianale che avevamo costruito per schiacciare l’argilla
”.

Renato Cortellini: “Ai tempi in cui era vivo mio Nonno la terra l’andavamo a prendere sul terreno con il piccone. Poi andavamo in laboratorio e la scaricavamo. La trasportava un mulo con i bigonzi scarcarelli, che sono due bigonzi che c’hanno il fondo bucato. Arrivati vicino alla vasca dell’argilla si slacciava la cordicella e zum: si aprivano i bigonzi e il contenuto andava a finire dentro!
Usavamo l’argilla della zona, ma ora non si può più fare. Una volta la stavo scavando dal campo, in certi terreni miei. La forestale mi ci ha trovato e mi ha detto di non cavarla più. Ti possono anche mettere in galera, perché la considerano come una cava abusiva. Loro fanno di ogni erba un fascio, mentre noi per le nostre esigenze caviamo poca terra, forse 15 quintali all’anno.

Poi l’argilla si bagnava e si manovrava con il badile e la pala. Poi si metteva su un tavolone grosso di quercia che ancora ce l’ho su alla vecchia bottega. E si passava su e giù una ventina de volte con una sbarra de ferro. Così l’argilla era pronta. Si maneggiava ancora un po’ con le mani ed era pronta per il tornio. Invece adesso arriva la creta pronta in pacchetti
”.

Carlo Fattorini: “L'argilla al tempo della fame la estraevamo con il piccone, ora si compra roba già manipolata, industriale. Sarebbe meglio usare solo la terra nostra, ma se vai a pijalla con il somaro, come si faceva una volta, non puoi magnà! Se te metti a picconà ci metti 2 giorni a estrarre un quintale de terra. Invece se paghi 20 euro ne prendi un quintale e ½.”

La tornitura

Se è vero che tutte le fasi della produzione di manufatti in terracotta richiedevano una grande esperienza, probabilmente era nel lavoro del tornio che la maestria degli artigiani di Ficulle si esprimeva a pieno. Si trattava allo stesso tempo di un lavoro di fatica e di grande perizia.

Renato Cortellini: “Il lavoro del tornio era faticoso, ma noi si era cocciari che mica scherzavamo! Si lavorava davvero: stavamo 12-14 ore al giorno al laboratorio. Se no facevi poco, non producevi abbastanza.
Noi siamo in grado di fare centinaia di pezzi al giorno con il tornio: siamo veloci, è proprio il lavoro nostro.

Il lavoro del torniante uno lo può continuare a fare anche alla mia età solo se ha fatto una vita corretta. Se uno ha bevuto, ha fumato molto… basta che le mani tremano un pochino e non lo riesci a fare più. Ci vogliono le mani ferme.

Oggi è molto più facile. L’impastatrice oggi ti prepara anche i pezzi e le misure, oppure si mette un affare al tornio che chiamano giudice. Ma io non ne ho bisogno: fo molto ad occhio. Tanto è vero che quando mi ordinavano 100 boccali mi dicevano: come fa a farli tutti uguali? A occhio, pratica e occhio. Quando ne ho fatti uno-due gli altri vengono tutti uguali.

Le crete che usavamo erano di diversi tipi: quelle refrattarie, più rosse, si usavano per i tegami, ad esempio. Perché la rossa è buona per cuocere, mentre quella bianca si spacca.Ma se fo un contenitore per l’acqua, quella bianca tiene. Più è bianca e più tiene. Mentre quella rossa diventa umida, si impregna tutta. Il fischietto invece lo fai con tutti i colori di terra, quella che c’hai usi.

Anche i giovani sanno tornire, ma mica come noi. Dopo sono più bravi su altre cose. Loro hanno fatto la scuola d’arte e hanno imparato altre cose. Noi siamo rimasti alla tradizione, e loro invece sono andati avanti. Sanno usare altri materiali, usano tecniche nuove. Noi invece tecniche nuove niente.”

Carlo Luciani: “Il nostro era un lavoro faticoso ma dava anche soddisfazione. Non si dipendeva da nessuno, eravamo liberi, e questo è tanto. E la domenica era sempre festa. Anzi, quando avevamo cotto un forno si faceva sempre 2 o 3 giorni di festa.”

Carlo Fattorini: "Diceva il mio Maestro che gli ero passato avanti, che ero diventato più bravo di lui al tornio. Lo diceva Rigo, io non lo direi mai! Lui mi insegnava che la terracotta più fina la fai e più bravo sei. Poi però io ci avevo preso gusto a farla fina, e allora lui prese a dirmi: devi imparare a farla più spessa! Io non lo ascoltavo e allora litigavamo. Il fatto è che lui preferiva la solidità del vaso, in modo che non si rompesse. Perchè ovviamente più fino è l'oggetto più è facile che si rompa.
Anche mio figlio è passato avanti a me. Di mio Figlio posso dirlo, mentre non lo potrei dire del Maestro mio!


La cottura

Particolarmente affascinante è il racconto di come si cuocevano i cocci e i fischietti nel forno a legna. Si trattava di un lavoro lungo e faticoso, che richiedeva abilità da molti punti di vista, come la disposizione dei pezzi nel forno o la scelta dei tempi e delle temperature.

Fabio Fattorini: “I forni a legna tradizionali avevano una camera di cottura di 1 metro e 80 per 1 metro e mezzo per 2 metri di profondità. Sotto c’èra un bacino dove si metteva tutta quanta la legna. Il forno era a fiamma libera, nel senso che c’era un pavimento per dividere le due zone con una serie di fori da cui passava la fiamma. Saranno stati 50-60 fori, e la fiamma passava in mezzo ai vasi.

Con la cottura a legna, per cuocere un bel forno ci vorranno dalle 28 alle 30 ore. Ma il tempo di cottura dipende anche dal materiale che ci metti dentro. Bisogna calcolare un certo numero di ore per ogni quintale di creta. Se nel forno ci sono solo piatti e bicchieri, che sono sottili rispetto a brocche e vasi, 5 o 6 ore le risparmi.
Ci sono varie fasi di cottura
. Le prime 8-10 ore sono di tempera, nel senso che gli oggetti non devono “vedere” la fiamma ma soltanto calore, in modo che si tempera tutto l’ambiente. Poi puoi iniziare a usare la legna più sottile fino ad avere la fiamma viva che serve a “lavare” lo smalto.

Nel forno, gli oggetti si impilano uno sopra l’altro. Le brocche le metti bocca contro bocca e poi di nuovo fino a formare una colonna. Questo significa che per potere infornare gli oggetti devi farli in un certo modo. La brocca da vino, quella li con il becco lungo, devi farla con il becco di una certa forma e misura, perché poi devi appoggiare i pezzi bocca contro bocca e sedere contro sedere. Quindi se il becco è un pò storto la brocca non poggia bene, e non riesci mai a
fare la fila.
I piatti invece si impilano separandoli l’uno dall’altro con dei piedini fatti in terracotta.
Alla fine il forno deve essere completamente pieno. Perché essendoci i fori sul pavimento, la fiamma viaggia dove c’è il vuoto. Quindi se si lasciano degli spazi viene una cottura non omogenea, perché dove c’è il vuoto la fiamma è piena, mentre nella parte dove ci sono più oggetti sarà difficile che passi.”

Carlo Fattorini: “Riempito il forno, si mura la porta con i mattoni o con 'li cocciacci, con la terraccia. E un metodo vecchio, di quando c’era la fame.”

Fabio Fattorini: “Si lascia un foro di 10 centimetri per poter controllare quando esce la fiamma, il che avviene grosso modo dopo 18 ore di cottura. A un certo punto i pezzi diventano di un rosso incandescente.
Sul forno ci sono anche alcuni fori, davanti e dietro, che servono per fare lo sfiato, cioè per fare uscire la fiamma. Magari succede che nel forno c’è più fiamma nella parte avanti, e allora tu chiudi un buchetto davanti e la mandi indietro. Sono tutti giochetti che servono per avere condizioni di fiamma uniforme dentro il forno
.”

Carlo Fattorini: “Una delle cose difficili è capire quanti gradi di calore ci siano nel forno a legna, perché lo devi vedere co’ l'occhi. Anche quando fai il colore devi capire ad occhio quando raggiungi la giusta dose di ingredienti. Oggi se il pezzo ti viene troppo cupo puoi mettere una soluzione e farlo più chiaro, ma allora non li potevi fare questi discorsi qui.“

Fabio Fattorini: “Non c’è termometro nel forno a legna. Si capisce che il forno ha raggiunto la temperatura giusta quando il rosso ha preso un colore particolare, che mi è difficile spiegare a voce. A quel punto ci si ferma, non si alimenta più il fuoco.
Insomma il forno a legna richiede un lavoro un po’ lungo, sia per infornare sia per la cottura
.”

Carlo Fattorini: “Il forno a legna che ho adesso è nuovo ma l’ho costruito come 2000 anni fa. Ho fatto tutto io, sono maestro di queste cose qui. L’ho ricostruito con le stesse misure del forno del mio Maestro: come era fatto quello li ho fatto questo. Perché quando vai fuori con le misure diventa un po’ difficile. Ed ho anche due tornii di quelli vecchi, a pedale.”
Ma la cottura dei pezzi era anche una delle fasi di lavoro più belle per un cocciaro, sia perchè permetteva momenti importanti di socialità che perché preludeva ad un breve ma meritato riposo.

Carlo Luciani: “La fornace in un mese circa si riempiva. E allora circa una volta al mese si coceva. Di inverno era un po’ difficile azzeccare il giorno giusto, perché ci voleva il sole.

La cottura era una festa, sopratutto l’inverno, quando era freddo. Noi si accendeva il fuoco verso mezzogiorno-l’una fino al mezzogiorno dopo, e la notte bisognava fare la veglia. E la sera venivano gli amici, ci facevano
compagnia. A mezzanotte levavamo la brace la mettevamo in mezzo, e si cucinavano le salcicce e le bistecche di maiale.
L’estate invece era fatica, eh! Perché a mettere la legna era caldissimo.Col fratello si faceva mezza nottata per uno, io facevo sempre la sera e lui all’1-1 e ½ si alzava e mi dava il cambio fino alla mattina
.”

La decorazione

La decorazione caratteristica di Ficulle è maculata: il fondo reso chiaro da un ingobbio, il bianchetto, viene decorato con macchie verdi e marroni. In fine si da una mano di cristallina per rendere lucida e impermeabile la superfice.
Bianchetto e colori erano tutti prodotti artigianalmente dagli stessi artigiani.

Carlo Fattorini: “La colorazione tradizionale di queste parti la chiamiamo schizzato. Si fa immergendo nella vernice lo scopetto e poi schizzando i pezzi. I colori erano fatti con sostanze naturali ed erano preparati da me o da altri artigiani: le macchie verdi le facevamo con il rame bruciato, quelle scure con un sasso vulcanico macinato, quindi alcune macchie venivano più intense, altre meno intense. E puoi girà il mondo ma un colore come questo non lo trovi da nessuna parte.”

Fabio Fattorini: “Per il fondo chiaro si usava quello che noi chiamiamo il bianchetto. Con il bianchetto il pezzo diventa giallino dopo la cottura, invece che tutto marrone.
Non è un colore, ma una terra bianca che da noi si trova solo al campo di Triguanda. La terra va messa a bagno, poi si mette a scaglie dentro una conca e viene setacciata tre o quattro volte. Si mette a bagno, si mescola con le mani, si passa con il primo setaccio grande, poi quello più piccolo, infine quello ancora più sottile, fino a che diventa proprio liquida.
Per questa ultima fase ci vuole un ora e mezza per ogni litro, perché il setaccio è così fino che non passa quasi niente. E infatti il setaccio si chiama così perché un tempo si faceva con la seta. Ci vuole una giornata solo per fare questo lavoro.

Per quanto riguarda il colore verde usavamo gli scarti di rame. Si mettevano nel forno in un recipiente, e si cuocevano. Il rame quando è cotto si spezza così, con niente. Poi con un mortaio si batte, si setaccia, e diventa polvere. E si rimescola insieme al piombo. Naturalmente ad occhio, perché non è che c’è il bilancino. Quando vedi che il colore è giusto ti fermi.”

Renato Cortellini: “La colorazione verde e marrone che vedete noi non la compramo. Ho continuato sempre a farmi i colori come li facevano mio Nonno, il mio Bisnonno e li mi Babbo. Gli ingredienti li mettemo ad occhio, non pesamo niente.
Per fare il marrone ci mettemo una pietra di Civita de Bagnoreggio, il manganese. Pè fa il verde cuocemo il rame e lo pistamo su una pietra.
Facciamo da soli persino la cristallina. Prima usavamo piombo puro, che addirittura a me è finito nel sangue. Ho il saturnismo, che ho preso dando il piombo. Poi lo hanno vietato, quindi facciamo la cristallina igienica, che sarebbe vetro macinato. Ce se mette il silice, che sarebbe la sabbia fina fina. E viene fuori la cristallina come quella di oggi, solo un po’più ruvida.

Poi questo colore lo damo a modo nostro, senza usare lo spruzzo come insegnano oggi. Bagniamo il pennello nel colore e lo tiriamo addosso al boccale, a modo nostro. Poi prendiamo un catino di cristallina e ci buttiamo dentro il boccale.



Facciamo anche molto velocemente: se mi ci metto con mia moglie a dare il colore a 100 boccali non ci mettemo neanche un’ora a farne 100!”


Sia Carlo Luciani che Fabio Fattorini sottolineano come rispetto ai forni moderni, il forno a legna dia alla colorazione dei pezzi un effetto diverso e più suggestivo.

Carlo Luciani: “Lo smalto era su per giù tutto uguale, però se noi cocevamo 50 brocche con la legna non ne veniva nessuna uguale. Perché la fiamma non arrivava in modo uguale. Per esempio la brocca che era in alto nel forno veniva di un colore meno intenso, quella in basso si bruciava leggermente. Venivano fuori dei colori stupendi. Poi abbiamo preso il forno a gas e quello elettrico e la roba che c’è dentro viene tutta uguale, quelli in alto e quelli in basso.”

Fabio Fattorini:Il forno a legna dà ai pezzi una colorazione particolare, unica, che oggi con i forni moderni si è persa. Se nella parte inferiore del forno abbiamo ad esempio 1.000 gradi di temperatura, sopra la temperatura sarà sempre inferiore. Questa differenza di calore cambia la colorazione dei pezzi. Non potremo mai avere la stessa temperatura sul tetto e sul fondo del forno: uno può essere bravo quanto vuole, ma è impossibile. Quindi anche il colore dei pezzi sarà diverso.
E poi anche una stessa brocca potrà avere due colori diversi, uno più intenso e l’altro meno. Perché magari da una parte ci è passata la fiamma vicino, dall’altra parte no.
Infine va considerata anche l’umidità del forno e degli oggetti, perché l’umidità porta a cambiare colore.
Il forno a gas invece ha una intercapedine dove passa la fiamma. Quindi la fiamma gira in modo uniforme. E anche gli oggetti vengono fuori tutti simili
.”

La vendita

Gli artigiani di Ficulle si occupavano anche della vendita dei prodotti, che avveniva presso la propria bottega o in maniera itinerante, nelle diverse feste di paese e mercati. L’area in cui i cocciari di Ficulle smerciavano i loro prodotti era piuttosto ampia, e comprendeva oltre all’Umbria parte della Toscana e l’alto Lazio.

In un suo saggio, Francesca Sgrò[3] documenta come anche i fischietti in terracotta fossero un prodotto ricercato, soprattutto durante la fiera di San Giuseppe a Castiglione di Teverina (provincia di Viterbo) e la festa della Pentecoste a Orvieto. Quest’ultima era detta anche la festa della Palombella, ed infatti il fischietto più richiesto era proprio quello che riproduceva questo uccello.

Fabio Fattorini: “Questi signori, gli artigiani tradizionali, portavano i loro prodotti col somaro, con dei bigonzi pieni di cocci. Facevano il giro per le campagne, o andavano ai mercati che si tenevano nei vari paesi una volta al mese. E vendevano la loro merce. I contadini erano gli acquirenti più importanti. Ad esempio le brocche erano fondamentali: all’epoca non c’era l’acqua in casa.”

Carlo Luciani: “Prima si girava con il cavallo e il carretto. Nel 1935 Babbo – che si chiamava Francesco - e suo fratello Settimio si fecero un camioncino. Io sono del ’27, e avevo 7 anni, ma mi ricordo benissimo: era un 501 e costò 2.900 lire. E allora noi si arrivava ancora più lontano, 70-80 km dopo Orvieto. E si vendeva bene, perché li non avevano la nostra roba.

Anche qui a San Cristoforo si vendeva qualcosa. Vivevamo a poca distanza dalla famiglia Cortellini, che faceva lo stesso mestiere nostro. E sia noi che i Cortellini vendevamo la merce in piazza sotto quegli alberi li. Siccome tra Orvieto e Chiusi l’autostrada non c’era, le macchine passavano da qui, era una strada centrale. Per cui vendevamo la merce a chi passava.
Per fortuna con i nostri vicini si andava d’accordo. Ci dicevamo: oggi c’hai roba te? E tirala fuori te, io la tiro fuori domani.
E poi bisognava girare. E si andava in giro per le piazze e per i mercati a vende la nostra roba. Noi andavamo a Orvieto tutti i sabati, e c’avevamo anche un magazzino li.”

In più di una pubblicazione,[4] si nota come Cortellini, che ha continuato a girare le fiere fino a metà degli anni ’90, sia stato uno degli ultimi cocciari ad aver perpetuato questa modalità di vendita dei prodotti.

Renato Cortellini: “Ormai ho rottamato il carretto del mi Babbo, quello che usava quando era giovane e con mi Nonno andavano a vendere in piazza questi prodotti.
E anche quando ero giovane io giravamo tutte le fiere e i mercati qui intorno col carretto. La città più lontana dove arrivavano era Castiglion Teverina. Anche alla fiera della palombella a Orvieto ci andavo sempre con la bancarella, e di fischietti della palombella ne vendevo molti.
Il carretto era tirato dal cavallo
, e quando si arrivava lontano usavamo anche il carriolo a 4 rote, al quale attaccavamo anche il mulo. Ci volevano 2 o 3 bestie, altrimenti la salita gli pesava troppo.
Dopo abbiamo continuato col camioncino. Quando avevo 18 anni con il Babbo abbiamo preso il primo 501.
Le fiere le ho fatte forse fino al ’95. Ho smesso quando è uscito il registratore di cassa, perché l’artigiano deve fà l’artigiano. Io la vedo così: non mi posso mettere a fare il commercialista.”

I fischietti di Ficulle

I fischietti in terracotta di Ficulle sono di fattura piuttosto semplice rispetto alla produzione di altre zone d’Italia. Si tratta di numero limitato di soggetti, prevalentemente modellati a mano, lasciati grezzi o decorati con una semplice invetriatura. D’altronde il fascino di questi oggetti sta probabilmente proprio nella loro semplice espressività e nella loro completa aderenza alla tradizione.
I soggetti e la fattura di questi fischietti si ripetono infatti senza significative variazioni da generazioni. Si tratta di solito di soggetti legati al mondo rurale, che ricordano da vicino quelli prodotti dai vasai del viterbese e della Toscana.[5]

E’ stato documentato dal Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari che negli anni ‘30 fossero 18 le botteghe di Ficulle che lavoravano la terracotta. Tre di queste, oltre agli oggetti di uso domestico realizzavano i fischietti: si tratta delle botteghe Cortellini, Poli e Luciani.[6]

Renato Cortellini: “Sono tutti soggetti tradizionali: il bue col fischio, il cavallino con il fischio, il mulo con i bigonzi, la contadinella, il contadinello. Poi c’è l’uomo a cavallo, la gallinella, il pavone. Mi Nonno faceva anche il carabiniere, ma io non l’ho fatto più. Perché per farlo bello lo facevano con gli stampi, e a me con gli stampi non andava di farli, li ho buttati via tutti. Avevo anche il fischietto col duomo di Orvieto fatto con lo stampo.

Si facevano anche i richiami per gli uccelli di coccio, tipo questo.
[7] E’ fatto un pezzo al tornio un pezzo a mano, mentre le altre forme sono tutte a mano. Li usavano i cacciatori. Però bisogna saperli manovrare quando si fischia, altrimenti gli uccelli si impauriscono!

A fare i fischietti mi ha insegnato Cesare Cortellini, mi babbo, che gli ha insegnato su Babbo Fabiano. A mi Nonno ha insegnato il mi Bisnonno Luca, che anche lui faceva ‘sto lavoro. E mia figlia che si chiama Carla li sa fa anche lei. Ma non li fa, perché non guadagna. Insegna all’Istituto d’Arte.

Il guadagno dei fischietti era ed è piccolo, perché ci vuole tanto tempo per farne 1. Con 1 ora ne faccio 3. I fischietti tutti devono fischiare forte, e se azzecchi i fori fischia subito, altrimenti ti tocca provà, riprovà… poi ti vengono i cinque minuti e lo rompi. Ne faccio pochi e mi tocca smettere, perché mi agito. Però c’era la tradizione. Per questo seguito a farli come mi Babbo e mi Nonno.

Li acquistavano i bambini specialmente, sopratutto alla fiera della Pentecoste a Orvieto. Oggi non li fa più nessuno. A Ficulle c’è solo la Paola Biancalana che sa fà i fischietti
.” [8]

Carlo Luciani: “Non è che avevamo una grande produzione di fischi. Magari li facevamo per qualche ragazzetto, o facevamo qualche richiamo per un cacciatore quando lo chiedeva.nLa forma che si faceva di più allora era questa qui, il fischio semplice”.

Carlo Fattorini: “I fischietti ho imparato a farli dallo Zio del Maestro mio. Come forme facevamo degli animali - come il cavallo, la vacca e l'uccellino - o persone - come il contadino e il carabiniere. I soggetti dei fischietti erano più o meno quelli li, magari si poteva cambiare qualcosa in base alla fantasia del singolo artigiano. Poi gli mettevi il fischio sul culo.
Da noi a Ficulle si lasciavano grezzi, non si coloravano, esattamente come le statuine del presepe.
E si facevano tutti a mano, non si usava il tornio
”.

Fabio Fattorini: “Il fischietti tradizionali come il carabiniere, o il contadino che sale a cavallo all’incontrario, eccetera, erano delle prese in giro, come le barzellette di adesso sui carabinieri.
Poi oggi puoi trovare autori tradizionali, che mantengono la linea del passato, e quelli che dal tradizionale si evolvono e diventano qualcosa di diverso, magari acquisendo un valore artistico, come quelli di Paola Biancalana
.

Il fischietto va fatto per forza a mano, non puoi usare stampi. Ed è una cosa delicatissima: se fischia subito è fatta, se non fischia allora magari ci perdi tantissimo tempo: devi bagnare, provare ad aggiustarlo, poi lo guasti e lo rifai da capo, eccetera. Anche per questo mio Babbo non si è più impegnato a fare fischietti, anche perché purtroppo economicamente non ne vale la pena. Per fare un fischietto ci vuole molto tempo, non bastano 10 minuti. E magari lui li vendeva a 10.000 lire. Allora quello che capiva il fischietto – perché ne conosceva la tradizione e comprendeva la lavorazione che c’è dietro - lo prendeva, mentre la maggior parte della gente che veniva alla bottega diceva: ma voi siete matti, costano troppo! E allora lui ha abbandonato, perché diceva: che posso stare a litiga’ con tutti? E allora se vuoi lo fai per regalo, ma se lo devi fare per lucro, per soldi, non vale la pena. C’è soltanto una piccola nicchia di persone che può capirne il valore”.

Gli altri prodotti tradizionali

Al di là dei fischietti, a Ficulle si produceva una notevole varietà di stoviglie e recipienti di uso domestico. Alcuni di questi oggetti sono ormai scomparsi da decenni dalle nostre case, e forse proprio questo dona loro un fascino particolare.

Fabio Fattorini: “Quella che si fa qui non è ceramica ma terraglia, ovvero oggetti popolari di uso quotidiano. In questa zona non c’era ferro, né rame. Tutti gli oggetti di uso quotidiano venivano fatti con la terracotta. E quindi c’erano tutta una serie di oggetti in terracotta che si usavano nelle case di una volta.

Ad esempio io ancora conservo uno scolapasta in terracotta che è di fine 800. E poi ho una conca antica per lavare i piatti, perché una volta non c’era il lavandino. Con le conche in realtà ci facevano tutto. Ci lavavano anche i bambini nella conca più grande. E poi ci lavavano i piedi, le verdure….Cambiavano conca spero!

C’erano i recipienti refrattari, nel senso che potevano andare sul fuoco. Poi c’era la panatella per andare a prendere il vino in cantina, la zuppiera per la minestra di pane, e la brocca con cui si andava alla fontana a prendere l’acqua. La donna ne metteva una sulla testa, una sotto braccio e magari teneva anche qualche figlio piccolo per mano. Il ruolo della donna era fondamentale. Magari gli uomini andavano alla guerra – ad esempio Nonno mio ha fatto tutte le guerre possibili e immaginabili: Spagna, Africa, le ha fatte tutte! – e lasciavano sola la donna, che doveva fare tutto. Pensa che donna che era per gestire questa situazione!”

Renato Cortellini: “La produzione principale erano i tegami, i pignatti. C’era quello per mettere a fare il brodo e quello da latte, che si riscaldava vicino al fuoco per fare sia la ricotta che il formaggio.
Sapevamo fare anche gli otri grandi che si usavano una volta per conservare ad esempio olio e formaggio. Addirittura gli anziani li facevano ancora più alti, fino a 100 – 150 kg di capacità. Si modellavano parte al tornio e parte a mano, aggiungendo dei cordoli. Noi la chiamavamo tecnica “a picio”.

Oppure c’era la brocca nostra, la brocca ficullese per l’acqua che si portava sulla testa. Le donne dei piccoli paesi come i nostri facevano la coroglia, che è un pezzo di stoffa piegata in modo da fare una cosa rotonda. La mettevano sulla testa e su poggiavano la brocca, che pesava 12 litri. E così andavano e venivano dalla fonte.

Facevamo lo scaldaletto e la pretina da riempire con la cenere e il fuoco ardente per riscaldare il letto. E funzionavano: andavi a letto, e ti riscaldavi in un minuto!

Anche nel braciere ci si metteva la cenere e lo tenevi in mezzo alla cucina per scaldare. Perché le case di
una volta, quando ero piccolo io, avevano una cucina grande grande, con un grande focolaio, e le camere erano piccole. Il bagno non c’era, si andava nel campo o nella stalla.”

Carlo Luciani: “Facevo anche qualche pipa di terracotta per qualche vecchietto. Poi si prendeva un pezzetto di noce, con un ferro si bucava e si faceva il bocchino”.

Carlo Fattorini: “E’ un discorso forse difficile da capire, ma io sono attaccato a questo discorso del lavoro di cocciaro, a queste tradizioni vecchie. Ad esempio quello il è pignatto per il camino, con cui facevamo li fascioli. Quello li lo facciamo in quel modo da secoli, e resta sempre lo stesso come da tradizione.”

La crisi produttiva

Le vicende della crisi della terracotta di Ficulle non sono dissimili da quelle di tanti altri centri di produzione. Nel secondo dopoguerra furono molti gli artigiani a chiudere, e soprattutto si arrestò il ricambio generazionale.

Fabio Fattorini: “Negli anni ’60, c’è stato il boom economico. Con l’avvento degli utensili fatti in plastica e in altri materiali, questo lavoro è crollato. Tutti cercavano l’oggetto moderno, e questi prodotti tradizionali in terracotta non li comprava più nessuno. Hanno abbandonato quasi tutti gli artigiani, sono rimasti solo pochi produttori più solidi.
Anche Babbo aveva smesso di fare questo mestiere per una decina d’anni. Poi dal ‘64 prese in affitto l’antico laboratorio dei Sassetti con le fornaci, ed è stato in quella bottega per 30 anni circa, fino agli anni ’90.”

Renato Cortellini: “Il periodo nero è stato quando è arrivata la plastica e poi quando sono andati via i contadini, la trasformazione industriale. Per me l’Italia s’è rovinata quando hanno smesso tutti i contadini. L’hanno mandati tutti su a Tornino a fà l’automobili. Ma ora se si bloccano l’automobili viene la fame! Noi invece allora si stava bene, non c’erano tanti soldi magari, ma tanta roba. Per esempio noi si dava una brocca e loro ti davano un pollo. Oppure una brocca e un tegame per una forma de formaggio.

Però io non ho smesso quasi mai di fare questo lavoro. A parte un periodo, perché si faceva l’autostrada e si guadagnava forte. Io sono appassionato di motori e durante il militare ho preso la patente D-E, ed allora con l’autotreno portavo la sabbia. Ma per il resto il lavoro mio è stato sempre questo.

I figli dei vecchi artigiani hanno trovato un'altra strada, perché con questo mestiere si guadagna poco.
Adesso è rimasto solo un vasaio a Ficulle, Costantino
[9]. Ha qualche anno meno di me e sta per smettere anche lui. E poi c’è Fattorini che ha smesso, ma ha un figlio maschio a cui ha insegnato il mestiere. I Fattorini non vengono da ceppo vasaio, hanno imparato da un altro vasaio di Ficulle, ma sono diventati artigiani validi come siamo tutti noi.

Della mia famiglia altri facevano questo lavoro, ma hanno smesso. E io son rimasto, ma nessuno prenderà il mio posto. Ho una figlia che insegna all’Istituto d’Arte a Orvieto. E nessuno è venuto mai alla bottega a dirmi che voleva imparare ‘sto lavoro.”

La continuità nella tradizione – la produzione di oggi

Fortunatamente questa tradizione artigianale così ricca non rischia di estinguersi, almeno nell’immediato. C’è ancora qualche giovane produttore che porta avanti l’attività, e lo fa con sorprendente aderenza e dedizione a quelle che sono le tecniche produttive tradizionali.

Fabio Fattorini: “Io ho continuato: ho cominciato nel ’70 a lavorare col tornio e ancora oggi rifaccio le stesse cose come tanti anni fa.
Oggi a Ficulle ci siamo io e Costantino Del Croce che facciamo cose tradizionali. Poi c’è Paola Biancalana che fa i fischietti e altre cose, ma si tratta più di ceramica artistica che tradizionale. E c’è un'altra signora, Serena Rosati che ha iniziato con Costantino Del Croce e che ora fa delle cose, ma non è che ha un laboratorio suo.
Adesso questi oggetti sono ricercati per gli arredamenti delle case di campagna, anche perché si abbinano bene con il territorio nostro. L’uso è diverso, però la lavorazione è la stessa.

Questo ad esempio è lo scolapasta, ripreso in maniera fedele dall’originale dell’800; e questa è la zuppiera per la minestra di pane. Li faccio in piccola scala però, perché una volta le famiglie erano numerosissime.

Le imitazioni che si vedono in giro fatte in modo industriale lasciano un po’ il tempo che trovano. I miei oggetti sono uno diverso dall’altro perché sono fatti in maniera tradizionale, sia per quanto riguarda la foggiatura al tornio che la colorazione.

Estrarre la creta naturalmente era un lavoro difficile e lungo, quindi a un certo punto abbiamo iniziato a comprare quella già pronta dentro i sacchetti. Però ancora oggi nella mia bottega abbiamo delle argille vecchie di quelle che di cui facevamo l’estrazione, e le mescoliamo insieme a quell’altra industriale. Questo perché le argille industriali sono molto ricche e molto grasse - noi usiamo la parola “gagliarde”. Allora le tagliamo con quella più povera, che è ricca di sabbia. Quella più povera di sabbia è elastica, ma è facile che al tornio si possa spaccare. Allora si taglia con quella li più magra che è più sabbiosa. Perché l’argilla non è tutta uguale!

Nella mia bottega abbiamo un forno a legna e un forno a gas. Il forno a legna è nuovo, è stato costruito nel 95-96. Ma lo abbiamo rifatto identico a quello dell’antica bottega. E ci abbiamo continuato a cuocere fin che Babbo lavorava con me. Ora uso più quello a gas perché lavoro solo, quindi per riempire un forno a legna di 8 metri cubi ci metterei 2 mesi.

Anche quando faccio il forno a gas metto i pezzi ad incastro come se facessi un forno a legna. E’ una scelta mia, anche economica, perché io così risparmio metà forno. Invece altri terracottari usano i piani e per separare ogni oggetto. Io invece
riesco a fare tutta una pila, perché ho avuto un Babbo che mi ha insegnato certe cose.
Anche col forno a gas i pezzi hanno colori non uniformi perché io lavoro un po’ “matto”, nel senso che fò delle sgasate per riuscire ad avere dei colori non proprio omogenei, uguali.

Anche i colori continuiamo a farli noi con sostanze naturali. Ad esempio per il rame, io ho degli amici elettricisti che mi portano i pezzi. Il marrone lo facciamo sempre noi, ma adesso compriamo il manganese già raffinato. Col cucchiaio prendiamo il manganese, lo mescoliamo con gli altri componenti e controlliamo ad occhio la densità. Se tu guardi un oggetto dei nostri non c’è mai un colore uguale da una cottura all’altra. Uno è più chiaro, uno un po’ più scuro. Questo perché i colori si fanno ad occhio. Con i colori industriali è diverso: se usi il 125 A sai che è quella sfumatura lì e non un’altra.
Per il fondo chiaro uso ancora il bianchetto fatto da me, anche se è sempre più difficoltoso procurarselo, perché si trova solo in un terreno di proprietà della Curia. L’ho fatto l’altro giorno sto lavoro: questi sono i resti.

Attualmente sono assessore al turismo ed allo sport. E’ da un po’ di tempo che l’amministrazione punta a diventare città della terracotta. A me piacerebbe fare qualcosa in questo senso: ad esempio un museo della terracotta a Ficulle ci starebbe bene. Purtroppo le risorse delle amministrazioni locali sono sempre più scarse. Hanno tagliato tutto, soprattutto la cultura.”

Terracotta e terra coltivata

Per la nostra chiacchierata, Renato Cortellini ci aveva dato appuntamento nel tardo pomeriggio, spiegandoci che prima era impegnato nella raccolta delle olive. E infatti con lui si finisce per non parlare solo di terracotta, ma anche di un'altra sua passione: l’agricoltura. Ci piace quindi terminare il nostro articolo con le parole spese da questo artigiano su un diverso tipo di terra: non quella lavorata al tornio ma coltivata. D’altronde si tratta di un argomento solo apparentemente estraneo a quello della lavorazione delle stoviglie e dei fischietti, come ci spiega lui stesso.

“Era tutto collegato: per andare a vendere la terracotta ci voleva un mulo, un somaro e un cavallo. Perché il cavallo era veloce, trottava, il mulo e il somaro caricavano la soma. E per mantenere questi animali durante l’inverno si coltivava il fieno, mica è come adesso che telefoni e te lo portano. Poi serviva la legna del bosco per coce le terrecotte, eccetera. Per questo su a San Cristoforo avevamo una casa con un bel pezzo di terreno.
Tenevamo anche degli animali. Mio Nonno aveva 9 figli, e per dar da mangiare a tutte queste persone allevavamo una capra che dava il latte alla famiglia, ingrassavamo 2 maiali con le ghiande delle querce e così via.
Mio Nonno per arrangiarsi, per guadagnare un po’ di più, teneva un somaro sano per fare le mule con le cavalle. Che allora il mulo ci voleva. Valeva quasi il doppio di un cavallino perché era ricercato. Se poi vendevi un mulo già addomato, che già portava la soma, valeva anche di più. E allora quando l’asino andava con la cavalla lui vendeva il mulo e magari ci ricavava 5 kg di fagioli. Funzionava così, era uno scambio di robba, un baratto.

Adesso in laboratorio lavoro poco, ma lavoro in campagna, perché la campagna non si può lasciare. Ma non si guadagna niente. Le mele le lascio marcire, perché se non gli dai il veleno – e io non glielo do - non si possono commerciare. Come tagli una mela di quelle mie c’è il baco dentro. Ma io non lo voglio dare il diserbante, vedeste cosa fa: muoiono tutti i grilli, gli uccelletti, le lepri. E’ un disastro, sparisce tutto. E anche a noi non può fare tanto bene. Ma vogliono che si faccia così….
Il grano si vende a pochissimo. E poi noi ne produciamo poco perché teniamo a riposo i terreni, mentre i tecnici li spingono con i concimi,. Per far venire buono il grano bisogna tenere 4 anni l’erba medica, poi il primo anno ci metti il grano, il secondo l’orzo. Così viene bene, perché la terra sta a riposo. E l’erba medica gli da l’humus. Però su un ettaro di grano io ci piglio 15-20 quintali, mentre gli altri 40-50.
La vigna l’avemo levata perché non si guadagna più niente. E non si sapeva a chi dar l’uva. Del resto una volta il coltivatore diretto poteva vendere qualche litro di vino, ora non puoi più. Ci vuole l’autorizzazione. L’olio non si vende più. Adesso fanno venì l’olio dal Marocco.

Io amo vivere in campagna, nelle grandi città io non sto bene. Ho tanti cugini a Roma. Delle volte li vado a trovare ma poi non vedo l’ora di venì via. Non ci posso stare in città, perché noi siamo abituati a socializzare con i vicini. Ad esempio andiamo a veglia in una casa, facciamo le castagne, beviamo, chiacchieriamo fino a mezzanotte.
Invece al palazzo dove stanno i miei cugini mica si parla nessuno! Tocca star zitti. Buongiorno e via, se te lo dicono.
Qui ci conosciamo tutti, se mi
servono un paio di tronchesi del vicino scavalco, li prendo, poi li riporto giù. E la macchina mi piace lasciarla sempre aperta. Invece a Roma è tutto chiuso, a me non piace”.

NOTE
[1] L’attestato, affisso nella bottega di Fabro, recita: “Federazione nazionale degli artigiani. Diploma di medaglia d’oro rilasciato alla bottega artigiana di Cortellini Cesare, stovigliaio da Ficulle. Fondata nell’anno 1770 e senza interruzione condotta dai discendenti”
[2] Il fratello di Carlo di chiamava Sestilio Fattorini. Da alcune testimonianze pare che si trattasse del fratello forse meno dotato per quanto riguarda il tornio, ma più estroso e prolifico per i fischietti (di seguito riportiamo la foro di un suo fischietto).
[3] F. Sgrò, “Umbria”, in Paola Piangerelli (cur.), La Terra, il Fuoco, L’acqua, il Soffio, Museo nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, 1995
[4] Gerardo Moranti, Cocci e Fischietti, 2003; Paola Piangerelli (cur.) La Terra, il Fuoco, L’acqua, il Soffio, Museo nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, 1995.
[5] Simili come soggetti e essenzialità (o assenza) della decorazione sono ad esempio i fischietti degli Orlandi di Vasanello, dei Ricci di Vetralla, dei Romagnoli di Montelupo Fiorentino, dei Porri di Sorano.
[6] Paola Piangerelli (op. cit.); a queste botteghe va aggiunta quella dei Sassetti in base alla testimonianza di Carlo e Fabio Fattorini.
[7] Si tratta di un fischietto ad acqua, detto anche Chiù, che imita il verso dell’allocco.
[8] Di Paola Biancalana abbiamo scelto di non parlare diffusamente in queste pagine, ma di dedicarle un articolo a se stante. Infatti si tratta di una artista molto legata alle tradizioni di questo territorio (peraltro ha imparato a fare i fischietti da Carlo Lucani) ma che poi ha innovato profondamente forme e stili dei suoi pezzi.
[9] Si tratta di Costantino Del Croce

FOTO
1. Cavaliere, gallo – fischietti di R. Cortellini (collezione Loforti)
2. Carlo Fattorini in una foto d’epoca
3. Fischio – fischietto di C. Luciani
4. Renato Cortellini al tornio a pedale
5. Cavaliere – fischietto di C. Fattorini
6. Carlo Luciani nel suo laboratorio di Ficulle (foto G. Croce)
7. Contadino, contadina, diavolo – fischietti di R. Cortellini (collezione Loforti)
8. Fabio Fattorini nel suo laboratorio di Ficulle
9. Fischietto ad acqua o Chiù – fischietto di C. Fattorini (collezione Loforti)
10. Fischietto di Sestilio Fattorini (collezione Biancalana)

Testi di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com, vietata la riproduzione.
Si ringraziano tutti gli artigiani intervistati, Paola Biancalana e Franca Luciani Biggi.

Dedicato a Carlo Luciani

martedì 6 settembre 2011

II parte - I Maestri dei fischietti salentini: De Donatis, Falcone, Manco, Toma


Memorie e Suoni di Terra - conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore

Tra i Maestri delle botteghe di Cutrofiano e Ruffano, emergono alcune figure di particolare bravura, tanto da travalicare i confini dell’artigianato di qualità e da assurgere al rango di veri e propri artisti. Artisti popolari ovviamente, che non hanno mai avuto la possibilità di frequentare accademie e scuole d’arte, ma senz’altro in grado di realizzare pezzi unici di grande forza espressiva. A partire dagli anni ’70 – parallelamente alla riscoperta delle tradizioni popolari - studiosi ed appassionati hanno iniziato a interessarsi a questi Maestri, le cui opere fanno oggi bella mostra in molte collezioni private e pubbliche.

Vito De Donatis

Una di queste figure è senza dubbio Vito De Donatis, nato nel 1923. Forse la sintesi più efficace della sua personalità la esprimono queste parole di Claudia De Donatis, nipote di Vito e giovanissima artigiana figula: “Era un artigiano molto abile, ma questa dimensione gli stava stretta. Ha sempre avuto anche l’esigenza di esprimersi come artista.”

La caratura da artista di Vito De Donatis è stata riconosciuta da molti ceramologhi ed appassionati di arte popolare,[1] e nel 1997 il Gruppo Cucari Veneti volle tributargli un omaggio ospitando all’interno della propria esposizione annuale di ceramiche fischianti, realizzata a Nove (Vicenza), proprio i pezzi del Maestro di Cutrofiano e quelli di Luigi Toma. Ma la consacrazione del Maestro De Donatis dovrebbe essere rappresentata da una mostra personale in corso di preparazione ed a lui dedicata dal Museo Provinciale Castromediano di Lecce.

L’estro del maestro Vito si esprimeva soprattutto in sculture di terracotta anche di grandi dimensioni, non di rado fischianti.
Claudia De Donatis: “Ha sempre amato modellare fischietti e statuine, ma negli ultimi anni di vita ci si è dedicato ancora di più, anche perché per problemi di salute non riusciva più ad usare il tornio.”

Salvino De Donatis: “Negli ultimi 20 anni mio Padre si era dedicato interamente ai fischietti ed alle sculture di creta. Lavori che ha realizzato e portato avanti fino agli ultimi giorni. Conoscendolo non lo avrebbe mai cambiato ‘sto lavoro, non sarebbe mai stato capace a fare un’altra cosa neanche costretto sotto tortura
Ha cominciato con dei fischietti piccoli ispirati alle cose che faceva insieme a suo Padre. Poi ha iniziato a fare delle vere e proprie sculture.
E’ arrivato a fare anche pezzi di un metro di dimensione, realizzando degli oggetti che io veramente stentavo a credere che avrebbero potuto stare in piedi. Chi lavora con l’argilla sa benissimo quanto è difficile far sostenere i pezzi oltre una certa dimensione. Per sostenere queste strutture durante l’essiccazione si aiutava addirittura con dei pezzi di legno ed altri supporti.”

Lo stile del Maestro De Donatis è inconfondibile. Figure rigorose nella loro semplicità ed essenzialità, spesso allungate e stilizzate, ma in grado di comunicare con straordinaria immediatezza ed incisività stati d’animo e atteggiamenti dei personaggi da lui plasmati. Entrambe le caratteristiche - la semplicità e l’esilità delle forme - si sono accentuate nel corso della sua evoluzione artistica, quasi come se il Maestro aspirasse a raggiungere uno stile sempre più essenziale e puro e, proprio per questo, diretto e di grande impatto espressivo.
Salvino De Donatis: “Faceva delle figure molto esili ed allungate ultimamente. Addirittura c’erano delle figure lunghissime e che poggiavano solo su una base molto piccola. Se vogliamo poco realistiche, però molto espressive.
Secondo me con queste figure allungate era tornato alle origini, ai suoi ricordi d’infanzia. Infatti i modelli, le linee di cui lui mi parlava e che si producevano nella bottega di famiglia all’inizio erano proprio così: semplici, stilizzate.


I soggetti delle sue sculture riprendono anzitutto temi della vita quotidiana: la famiglia, ma anche pastori e soldati. Frequenti sono anche i temi religiosi come santi e madonne, di solito privi di fischietto.
Salvino De Donatis: “La maggior parte dei soggetti erano figure umane. Oltre a qualche animaletto. Anche in questo caso lui ricordava molto queste figure che faceva da ragazzo, secondo me, con qualche elaborazione chiaramente.
Ha fatto tante figure con una serie di uccellini sopra. Gli piaceva fare i pastori, i pupi da presepe, anche se non c’era una tradizione di figure da presepe nella nostra famiglia. Ha fatto anche qualche soldato. Lui ricordava l’esperienza della guerra, ha perso anche un fratello che non è mai tornato dalla Russia.”

Claudia De Donatis: “Un soggetto ricorrente delle sue sculture era la famiglia, con queste mamme e papà con tanti figli in braccio e sulle spalle, quasi a simboleggiare l’affetto e l’unità del nucleo familiare.“
Oltre che nello stile della modellatura, buona parte del fascino delle sculture di Vito De Donatis risiede nell’uso degli smalti.
Salvino De Donatis: “Oltre a realizzare queste figure gli piaceva molto decorarle. Siccome gli piaceva moltissimo lo smalto, la maggior parte dei suoi fischietti sono tutti smaltati.
Spesso in questa decorazione utilizzava dei puntini, delle piccole linee…Un lavoro molto di pazienza, ma a lui non interessava quanto ci metteva a realizzare un oggetto. L'aspetto commerciale non gli interessava.

Ricordo che a volte avevo difficoltà nel cuocere i suoi pezzi - perché ovviamente io continuavo sempre a portare avanti il resto della produzione della bottega. E lui ogni tanto me lo rimproverava. Diceva: ma quando mi cuoci i lavori? Faceva pressione perché non lasciassi troppo indietro il suo lavoro, insomma
!”

Le sculture del Maestro De Donatis rispondevano ad un’esigenza personale di ricerca artistica, che prescindeva da ogni intento commerciale e non si poneva il problema di andare incontro ai gusti del pubblico.
Salvino De Donatis: “Il prezzo di questi oggetti all’epoca, quando si vendevano, era sempre modesto. A parte che qualcuno lo regalava proprio, come se non valesse. Aveva una modestia che di questi tempi non esiste più. E poi lui aveva proprio il gusto di donarle queste cose. Perchè li faceva proprio per passione.”

Claudia De Donatis: “ Queste sculture e fischietti li faceva per passatempo, non immaginava che col passare del tempo potessero acquistare un grande valore. E purtroppo i maggiori riconoscimenti al suo lavoro sono arrivati dopo la sua morte, quando molti collezionisti ed appassionati di arte popolare hanno iniziato ad apprezzare e ricercare i suoi pezzi.”

Si rimane colpiti dal grande affetto verso Vito De Donatis che traspare dalle parole della sua famiglia. A oltre 10 anni dalla sua scomparsa Vito costituisce per loro un punto di riferimento da molti punti di vista, professionale, ma anche umano. La nipote Claudia, che all’epoca della sua scomparsa era appena una bambina, dice di lui: “Sono rimasta molto attaccata a mio Nonno. Forse è per il modo in cui si lavorava e si viveva in famiglia: eravamo sempre insieme e condividevamo tutto. E poi Nonno era molto attaccato alla famiglia, ci teneva moltissimo.”

La famiglia De Donatis possiede una splendida collezione di sculture del Maestro Vito, ma nonostante il valore di questi pezzi, la scelta fatta è quella di non sfruttarli a fini commericiali:
Salvino De Donatis: “Questi sono tutti fischietti suoi. Diciamo che è la nostra collezione di famiglia. Soprattutto mia figlia Claudia ha insistito per non commercializzarli. Ora sono difficili da vedere perché sono tutti ammassati in questo angolo, ma un giorno contiamo di realizzare uno spazio espositivo tutto per lui.”

Per i pezzi lasciati a metà dal Maestro perchè ancora da cuocere o smaltare, la scelta fatta è stata quella di portarli a termine ma rispettandone al massimo lo stile.
Salvino De Donatis: “Li abbiamo cotti e smaltati anche dopo la sua scomparsa. E’ rimasto ancora qualche pezzo grezzo, che ancora conto di smaltare e di cuocere. Di solito faccio una smaltatura semplice, bianca, senza intervenire con i colori che lui usava. Cerco di non alterare troppo i suoi pezzi e di rispettarne lo spirito. Però siccome a lui piaceva lo smalto, li smalto e di lascio così, bianchi.”

Serafino ed Alessandro Manco

Più d’una generazione della famiglia Manco si è distinta per la raffinatezza dei suoi fischietti e dei pupi da presepe, una raffinatezza legata sia alla loro abilità di modellatori che di decoratori.
Già negli anni ’80 il più noto e apprezzato Maestro di fischietti in terracotta dell’intero Salento era probabilmente Serafino Manco, e negli ultimi decenni il figlio Alessandro ne ha ereditato la fama, conservandola fino alla sua recente scomparsa.

Peppino Carella, uno dei maggiori esperti e fautori del rilancio della ceramica sonora, racconta di come il suo innamoramento con i fischietti sia legato ad una visita alla bottega dei Manco. Nel corso degli anni ’50 e ‘60 la produzione di fischietti in Puglia ed in tutta Italia era progressivamente quasi cessata, e in larga parte se ne era persa anche la memoria; in una società affamata di modernità, i giocattoli in plastica e altri prodotti di tipo industriale avevano sostituito il fischietto popolare come oggetto del desiderio di bambini e adulti.
Fu nel 1976 che il Signor Carella – che aveva una attività di commerciante nel campo della ceramica - visitando Cutrofiano, notò nella bottega dei Manco alcuni galletti di terracotta con le piume vere; erano i fischietti realizzati da Severino, già anziano, insieme ai figli. Ne fu affascinato, e chiese notizie su questi curiosi oggetti. Il Maestro gli spiegò che continuava a produrli e portarli nelle fiere più per abitudine che per convenienza, dato che ormai erano ben poco richiesti.
Se è possibile individuare un momento iniziale nel processo di riscoperta e valorizzazione del fischietto pugliese, fu probabilmente questo. Nella mente di Peppino Carella si accese una scintilla; ordinò a Severino Manco alcune centinaia di fischietti, e verificò che riscuotevano un certo interesse verso un pubblico diverso e più colto da quello delle fiere paesane. Di li a poco iniziò una ricerca che lo portò a rintracciare gli altri produttori di fischietti presenti sul territorio pugliese e in tutta Italia, fino a realizzare ad Ostuni la sua fortunata Mostra Mercato del Fischietto.

Ma Serafino Manco non è stato solamente il caparbio custode di un’antica tradizione produttiva, ma anche un autore in grado di innovare profondamente il fischietto con la sua fantasia e abilità di modellatore e decoratore. Come abbiamo già accennato, fu lui nel secondo dopoguerra uno dei primi produttori ad andare oltre le tipologie classiche di fischietti salentini, introducendo nuovi soggetti, di fattura più raffinata. Presso un maestro figurinaio imparò la lavorazione a stampo e da allora inizio a produrre una grande varietà di fischietti ispirati a personaggi della vita quotidiana ritratti con bonaria ironia, anche per l’apposizione del fischietto all’altezza delle terga.[2]
La sua bottega prese inoltre a realizzare anche pupi da presepe altrettanto raffinati, sempre a stampo.

Forse al Maestro Serafino si deve l’invenzione di un tipo di fischietto che diverrà poi una caratteristica della bottega dei Manco. Si tratta di personaggi con la testa unita al collo da una sottile molla di metallo, in modo da creare a ogni minimo movimento un effetto di oscillazione particolarmente efficace nell’attirare bambini ed altri compratori nelle fiere.
Racconta il figlio Alessandro: “Questi fischietti con la testa che si muove li faceva già mio Padre. Dopo avere fatto il fischietto con lo stampo, si fa un buchettino sul collo, si mette una molla fatta arrotolando il fil di ferro, e poi si inserisce su la testa. Il ferro va inserito prima della cottura, e si mette in forno il fischietto tutto intero. Dopo la cottura il ferro diventa un po’ più sottile e la testa si muove meglio.”

Dopo la scomparsa di Serafino, i figli continuarono nel solco della tradizione produttiva di famiglia. Con il crescere di interesse verso i fischietti ed i pupi da presepe tradizionali, i fratelli Manco si dedicarono a tempo pieno a questa produzione, abbandonando l’attività di vasai e stovigliai.

Alessandro Manco acquistò particolare fama non solo per la produzione dei fischietti a stampo, ma di pezzi unici di notevole bellezza e a volte anche di grandi dimensioni. Noti sono ad esempio i suoi grandi galli, una elegante rielaborazione dei classici galletti salentini.

Vito De Carlo ci racconta di Alessandro, come uno dei Maestri pugliesi più raffinati ed eleganti: “Era molto lezioso, sia per quanto riguarda le forme che per la decorazione. Faceva cose molto elaborate, molto raffinate. E poi usava colori non troppo marcati, ma piuttosto tenui: colori mediterranei, come il rosa chiaro o il celeste sul bianco. Era una decorazione molto delicata.
Caratterialmente era una persona dolce e piacevole, di una riservatezza infinita
.”

Luigi e Armando Toma

I fischietti di Luigi ed Armando Toma erano stilisticamente molto diversi sia dai pezzi dei Manco che da quelli di Vito De Donatis. Il modellato e l’uso dei colori di questi due fratelli di Torrepaduli (Ruffano) erano senz’altro meno raffinati e più istintivi, ma non per questo i loro pezzi erano dotati di minore forza di suggestione. La loro fama si deve anzi proprio alla grande forza espressiva dei loro fischietti genuinamente naif.

Tutti coloro che hanno avuto modo di conoscerli sottolineano come i due fratelli fossero molto diversi sia dal punto di vista caratteriale che per aspetto fisico.
Beppe Lo Bosco, appassionato e collezionista di ceramica fischiante che ha avuto modo di conoscere in maniera piuttosto approfondita i fratelli Toma, dice di loro: “Fisicamente, ma anche come carattere, erano uno il contrario dell’altro: Luigi piccolo e minuto, di poche parole; Armando un omaccione con una faccia rossa e più esuberante.”

Conferma Vito De Carlo: “Luigi era molto riservato, non è che si aprisse facilmente. Armando era molto più estroverso e a parere mio anche più intraprendente. Il fatto che collezionisti e commercianti si interessassero al suo lavoro gli fece capire che evidentemente quello che faceva aveva un valore.”

Il mestiere di Luigi Toma era quello di realizzare al tornio tegami da cucina. Le testimonianze concordano sul fatto che si trattava di tegami di ottima fattura.
Per quanto riguarda i fischietti, i suoi soggetti più noti corrispondono a quelli tradizionali del Salento: il cavallo a tre zampe, il carabiniere (con e senza cavallo), il cane ed altri mammiferi sempre rigorosamente a tre zampe, l’uccellino sul piedistallo, la pupa con le gambe sproporzionatamente lunghe e l’ampia gonna a campana realizzata al tornio.[3] Luigi dava tuttavia a questi soggetti una interpretazione personale ed inconfondibile, modellandoli in maniera molto essenziale, quasi ingenua.

Vito De Carlo: “Quando l’ho conosciuto - parlo di 25 anni fa - Luigi Toma era rimasto uno dei pochissimi che faceva ancora fischietti tradizionali come il carabiniere sul cavallo. All’epoca faceva solo 4 o 5 modelli di fischietti, non andava oltre. Poi quando c’è stata l’esplosione del fischietto ha iniziato a fare una serie di altri personaggi. Era apprezzato da molti appassionati, che glie ne facevano fare – e ne collezionavano - tantissimi.
Secondo me fare i fischietti rimaneva per lui un fatto prettamente di gioco. Sicuramente poi fu un po’ pressato da questa richiesta di collezionisti e di appassionati, ma probabilmente anche allora ne faceva un numero maggiore ma con lo stesso spirito giocoso
.” Ed in effetti, nonostante il suo successo crescente tra gli appassionati, probabilmente Luigi non si rese mai conto in pieno del valore e della dignità artistica dei lavori che realizzava. I prezzi dei suoi fischietti, anche quelli di maggiori dimensioni, erano infatti estremamente contenuti.

Parte del fascino e della forza espressiva dei fischietti di Luigi Toma vanno attribuiti - oltre che al suo stile minimalista - alla materia prima da lui usata: una creta colta dallo stesso artigiano e da lui depurata in maniera sommaria. Anche il metodo di cottura molto rustico contribuiva a dare ai pezzi una colorazione particolare. Nel loro insieme, tutti questi elementi donavano ai fischietti di Luigi Toma il fascino dell’oggetto arcaico e fuori dal tempo.

Beppe Lo Bosco: “La creta che lui cavava da solo era così impura che spesso sul pezzo finito noti il brillante del ferro, oppure l’emergere di una pietruzza di calce.
All’inizio usava una terra diversa, ancora più sporca e più scura. Poi qualcuno deve avergli detto che non andava bene per il mercato, e lui ha fatto uno sforzo per raffinarla maggiormente.

Non aveva un forno suo. Forse qualche volta usava anche il forno di altri, ma di solito cuoceva i pezzi in campagna, dentro un bidone di ferro. Con questa tecnica i pezzi a volte venivano mezzi bruciati, con un effetto affascinate.”

Nella maggior parte dei casi i pezzi di Luigi Toma non venivano colorati affatto, lasciando così a vista questa creta di consistenza e colore così suggestivi. Spesso, la decorazione dei pezzi era costituita - più che dai colori - da sommari solchi nella creta che simboleggiavano il piumaggio di un uccello. Altre volte dei fori rappresentavano occhi e bottoni di un personaggio. Ma il principale metodo per decorare e arricchire i pezzi era forse l’uso di un comune filo di metallo, con il quale Luigi Toma aggiungeva al cappello del carabiniere il pennacchio, inseriva un uccellino un piedistallo, costruiva le ruote di un carretto, e così via.
Tuttavia, succedeva occasionalmente che Luigi colorasse i suoi pezzi, sempre in maniera molto essenziale: di solito stendeva sui pezzi un fondo monocromatico sopra al quale venivano a volte evidenziati dei particolari con sommarie pennellate di colore diverso, altre volte disegnati semplicemente dei tratti e dei puntini.
Secondo alcune testimonianze, più che a una scelta stilistica la decisione di colorare o meno un pezzo dipendeva dalla occasionale disponibilità di vernici.
Beppe Lo Bosco: “Quando qualche amico muratore gli regalava dei colori avanzati allora colorava i pezzi.
Ad esempio il rosa è proprio quello delle masserie pugliesi. Si limitava a colorarli tutti di rosa, azzurro, giallo, verde. A volte poi colorava con un colore più scuro dei particolari come la cresta, le ali e il becco dell’uccellino, o semplicemente tracciava sui pezzi dei tratti e dei puntini. Ho provato a fare degli esperimenti, decorando i suoi pezzi grezzi con colori diversi e in maniera più raffinata. Ma l’effetto è molto meno affascinante, decisamente non convincono altrettanto.”

Lo stesso Luigi fornisce un’interpretazione alternativa del perché decorava solo alcuni fischietti: “Quando cuocevo i fischietti spesso ce n’erano uno o due che venivano fuori dal forno sporchi, e allora li dovevo pitturare.”

Alcuni aspetti pittoreschi del modo di essere e di lavorare di Luigi Toma contribuirono probabilmente ad accrescere la sua fama, incuriosendo gli appassionati di fischietti e a creando attorno a lui un’aura quasi di leggenda. Ad esempio, i racconti di chi lo ha conosciuto rimarcano spesso la strambezza e l’allegra confusione della rimessa che aveva adibito a laboratorio e del furgoncino che utilizzava per la vendita dei pezzi.

Vito De Carlo: “La prima volta che lo vidi fu una immagine spettacolare. Veniva da un mercatino con questo carrozzino modello Ape a tre ruote con tutte le sue pentole appese. Quando arrivava sentivi prima un gran frastuono di pentolame: “tititin - tititin”; poi arrivava l’Ape carica di tutte queste stoviglie appese. D’altronde doveva tenere tutto a vista, perché poi nei mercati non è che lui esponesse la merce su un banchetto: li vendeva direttamente sul carretto. Era una cosa davvero folcloristica!”

Il collezionista Paolo Loforti, che lo andò a trovare nei primi anni ’90,[4] descrive invece l’ambiente da lui adibito contemporaneamente a laboratorio, magazzino, rivendita, garage per l’Ape: fischietti e altre ceramiche traboccavano su grandi mensoloni, nel furgoncino, dentro casse sparse lungo i muri.

Beppe Lo Bosco: “Una volta siamo arrivati di domenica e lui aveva addosso l’abito buono, quello della festa. Per mostrarci come lavorava si mise al tornio, ma senza togliersi quell’abito. Si mise semplicemente una parannanza e infilò una sola scarpa da lavoro, quella che poggiava sul pedale, mentre all’altro piede aveva la scarpa lucida.”

Vito De Carlo: “Una cosa affascinante di Luigi Toma che io non ho mai visto in nessun’altra bottega era questo arnese che utilizzava per impastare l’argilla. Lui andava per i campi, prendeva questi sassi di creta, li metteva in questa specie di catino di ferro con una ruota che girando macinava, schiacciava queste pietre di creta, poi lui aggiungeva un po’ d’acqua e faceva la creta. Ed ecco il motivo per cui il colore dei suoi pezzi non è mai uniforme. Perché non usava una creta pura.”

Armando Toma, fratello minore di Luigi, è tra i due quello che ha raggiunto una minore notorietà, anche a causa della sua prematura scomparsa.
A differenza di Luigi, Armando non ha lavorato tutta la vita come figulo, ed anche quando sull’onda della ripresa di interesse verso i fischietti in terracotta ricominciò a fabbricarne, non risulta che abbia mai realizzato tegami o altri oggetti al tornio.
Vito De Carlo: “A differenza di Luigi, il fratello Armando ha ripreso a fare il fischietto, non lo ha fatto tutta la vita. Forse li ha fatti da bambino insieme al fratello, però poi ha ripreso a fare i fischietti quando ha cominciato ad esserci la richiesta del mercato.”

La produzione dei due Maestri aveva importanti punti di contatto – i soggetti erano grosso modo analoghi e si individuano caratteristiche comuni nella maniera di modellare – ma anche non poche differenze.
Beppe Lo Bosco: “Armando era più raffinato sia nella modellatura che nella decorazione. Luigi era forse più espressivo, ma non era ad esempio tecnicamente in grado di fare cavalli alti come quelli di Armando.”

A differenza di Luigi, Armando faceva della decorazione uno dei punti di forza dei suoi fischietti, applicando a freddo ai suoi pezzi una gamma di colori vivacissima.
Beppe Lo Bosco: “Gli accostamenti di colori di Armando a volte sono un pugno nell’occhio, ma sorprendono per espressività e vivacità.”

I pezzi più famosi di Armando Toma sono i cavalli a tre zampe, ma anche i galletti, i carabinieri, e una folta schiera di personaggi antropomorfi e zoomorfi.
Vito De Carlo: “Ovviamente i suoi pezzi più famosi sono questi cavalli molto snelli, anche di grandi dimensioni. Quando l’ho conosciuto, attorno all’87, lui partecipava alla fiera di Taviano. La prima settimana di settembre fanno questa fiera inerente la ceramica e lui con un suo banchetto vendeva questi cavalli. Probabilmente i fischietti li faceva per quell’occasione, ma non come lavoro continuativo.
Mi confidò che c’erano degli architetti milanesi che gli ordinavano una grande quantità di cavalli, e non sapeva neanche lui il perché. Poi abbiamo capito che li rivendevano come oggetto d’arredamento per le case della borghesia colta del Nord Italia.
Ma cavalli a parte aveva una gamma di soggetti infinita. Faceva anche dei fiori molto belli con cui decorava i pezzi”

Come accaduto per Vito De Donatis, anche i fratelli Toma ottennero un importante riconoscimento tributato loro dal Gruppo Cucari Veneti. La mostra di ceramiche fischianti organizzata a Nove nel 1997 vide infatti Luigi Toma e i suoi fischietti come ospiti d’onore, mentre nel 1998 fu il turno di Armando.

NOTE
[1] Ne hanno parlato ad esempio Mario Giani, “Vito De Donatis, artigiano e artista cutrofianese”, in Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n° 4/5, Ed. Congedo, Galatina, 2.000.; Alfredo Liguori, op. cit, e Paolo Loforti “A caccia di Fischietti – cronache di un collezionista”, in Sibilus 4, Agenzia Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, 2004.
[2] P. Piangerelli e F. Sgrò, “Puglia”, in Paola Piangerelli (cur.), La Terra, il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a MNATP, Edizioni De Luca 1995.
[3] Curiosamente manca tra i suoi pezzi il gallo; realizzava invece occasionalmente le trombette dritte e ritorte, modellandole al tornio.
[4] Paolo Loforti, op. cit.


FOTO
1. Cavalli a tre zampe di Armando e Luigi Toma

2. e 3. Fischietti di Vito De Donatis (coll. Lo Bosco)
4. Severino Manco (foto d'epoca)
5. Alessandro Manco (foto Lo Bosco)
6. Armando Toma (foto Lo Bosco)
7. e 8. Fischietti di Armando Toma (coll. Lo Bosco)


I testi sono di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata

lunedì 5 settembre 2011

I Maestri dei fischietti salentini: De Donatis, Falcone, Manco, Toma

Memorie Suoni di Terra - conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore

(I PARTE)


Non si viveva di soli fischietti!” Quante volte, durante le interviste con gli artigiani della terracotta, ci siamo sentiti ripetere questa frase. Per quanto attaccati a questa tradizione appresa dai loro avi ed pò magica di plasmare la terracotta facendone uscire un suono, quasi tutti i costruttori tradizionali di fischietti - dalla Sicilia fino al Veneto - ci hanno sempre spiegato che il reddito ricavato da questi oggetti era sempre stato marginale nell’ambito della loro attività di vasai, fornaciai, figurinai.

Quasi tutti gli artigiani, appunto, ma non tutti. Fanno eccezione i produttori di Ruffano e Curofiano, due paesi del Salento interno che distano tra loro appena 15 km, e nei quali la produzione e la vendita dei fischietti ha rappresentato nel corso del XX secolo una risorsa importante per le numerose botteghe di artigiani figuli, a volte la principale.
E’ quanto emerge dalla testimonianza dei 4 artigiani che abbiamo intervistato. Si tratta di alcuni dei Maestri del fischietto più apprezzati da appassionati e collezionisti, o che comunque possono vantare con questi Maestri una discendenza diretta.

Spiega Salvino De Donatis, ceramista di Cutrofiano e figlio di Vito De Donatis: “I fischietti si modellavano sopratutto in inverno e si vendevano durante le fiere estive. Mio Nonno aveva 7 figli, e tutti davano una mano a modellarli, così riuscivano a farne una grande quantità. Ci riempivano delle cassette e poi verso marzo, quando cominciavano le fiere, andavano avanti a venderli per tutta la stagione fino all'estate.
Quando mio Nonno andava in giro per fiere e mercati vendeva tantissimi oggetti piccoli, come i fischietti, ma anche le campanelle e le stoviglie in miniatura. All'epoca non c'erano molti giocattoli, e questi erano i regali che si acquistavano ai bambini nei giorni di festa.

Poi bisogna tenere presente che ogni paese ed ogni fiera avevano una loro caratteristica particolare, nel senso che si vendeva di più un certo prodotto o un altro. Quindi nella bottega si faceva di tutto, però in occasione della fiera si produceva di più quel tipo di cose.
Ad esempio per Maglie facevamo molte campanelle e fischietti. A Lecce andavano di più le miniature: si portavano dei carri interi pieni sopratutto di miniature. E quindi per quelle occasioni si riempivano forni interi di fischietti o miniature. Mentre nel periodo di Pasqua veniva fatta questa fiera della Madonna della Luce a Galatina e lì dovevamo portare tanti cofani, quelli per fare il bucato.
Poi magari anche tra gli artigiani c'era quello specializzato più in una produzione, e quindi portava alle fiere più quegli oggetti. Mio Nonno era specializzato più in questi giocattoli: il fischietto, la miniatura, e la campanella. Ma in particolare Nonno era uno specialista del fischietto, così come lo era mio Bisnonno e chiaramente mio Padre.”

Anche Vittorio Falcone, produttore di Ruffano e fratello di Errico, ci conferma che nella sua bottega la vendita dei fischietti superava quella degli utensili in terracotta: “Si guadagnava più con il fischietto che con il resto della produzione. Allora i bambini compravano molto i fischietti e le miniature dei tegami per la cucina, perché non c’erano giocattoli di plastica."

Altro produttore di Ruffano è Luigi Manco, figlio di Serafino e fratello di Alessandro. Racconta Luigi: “Di fischietti ne vendevamo tanti soprattutto ai mercati: i giovani allora li compravano e li regalavano alla fidanzata, o le fidanzate al fidanzato. O magari si regalava all’amico o alla comare.” Da notare che la bottega dei Manco realizzava e vendeva inoltre pupi da presepe.

Ultimo Maestro intervistato è Luigi Toma, che lavorava a Torrepaduli, frazione di Ruffano. Toma ci racconta come la produzione di fischietti fosse tutt’altro che marginale, anche da un punto di vista numerico: “Di fischietti ne modellavo 70-80 al giorno. E poi ne cuocevo 5-600 pezzi alla volta. Di più non si poteva, perché se vai piano-piano riesci, ma se fai di corsa un terzo dei fischietti ti si rompono.”

Una ulteriore conferma dell’importanza dei fischietti nell’economia delle botteghe figule salentine ce la fornisce l’autorevole studio del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni popolari sui fischietti tradizionali italiani.[1] E’ infatti documentato che nei primi decenni del XX secolo fossero numerose le aziende artigiane del Salento che realizzavano fischietti, e che tra i principali paesi produttori c’erano Ruffano, Cutrofiano e San Pietro in Lama. Una cosa molto interessante che emerge da questo studio è come un secolo fa queste botteghe non si limitassero a una produzione destinata alle fiere locali. Era anche usuale la commercializzazione dei fischietti salentini in altre regioni italiane - come la Calabria - e persino all’estero - in particolare in Albania e Grecia.

Le forme dei fischietti tradizionali del Salento
Negli ultimi decenni, i fischietti salentini e pugliesi sono stati caratterizzati da una esplosione di forme e colori all’interno dei quali non è facile rintracciare quali siano i soggetti più antichi e aderenti alla tradizione. Il testo del MNATP[2] e le interviste realizzate con gli artigiani ci consentono però di dire che all’inizio del XX i fischietti venissero foggiati in un numero limitato di forme: l’uccello, il gallo, il cane, la tromba, il cavallo, il carabiniere ed il fischietto ad acqua noto con il nome di calandra. Erano fischietti modellati prevalentemente a mano, di fattura elementare, spesso decorati sommariamente o non decorati affatto. Non si trattava di fischietti globulari, ed il modulo sonoro era dunque aggiunto alla figura.

Vittorio Falcone: “Facevamo i modelli di fischietti antichi, come la trombetta, i cavallucci, i cagnolini. E poi il carabiniere in divisa - a cavallo e anche senza cavallo.
I fischietti li facevamo tutti a mano, tranne il carabiniere. Quello dovevamo per forza farlo a stampo perché c’erano tutti i particolari della divisa e del cappello.
C’erano anche quelli fatti con il tornio, ad esempio se dovevi fare una figura con la pancia vuota dentro.
Facevamo anche il fischietto ad acqua. Si metteva un uccello sopra e fischiava come un fringuello. Si chiama calandra.


Salvino De Donatis: “I soggetti che andavano di più erano qualche animaletto – come l’uccello, il galletto, il cagnolino – e le figure antropomorfe.
Mio Padre mi racconta che modellavano queste figure un pò allungate, un pò stilizzate. Chiaramente dovevano essere figure molto semplici, perché bisognava farne tante e venderle per pochi soldi, quindi non andavano a curare troppo i dettagli.
E poi in casa si è sempre parlato anche di questo fischietto ad acqua, la famosa calandra. Il nome calandra proviene da un uccello che nidificava molto in queste zone e faceva questo suono particolare
.”

Si tratta di iconografie tutto sommato simili a quelle dei fischietti popolari delle altre regioni d’Italia (e non solo). In Salento, tuttavia, si registrano alcune particolarità.
Ad esempio il fischietto raffigurante Il cavallo – con o senza l’aggiunta del cavaliere – di solito è rappresentato con tre gambe: due davanti ed una sola dietro.[3]
Vito De Carlo, appassionato e cercatore di fischietti pugliesi sin dagli anni ‘80, ipotizza che la diffusione del fischietto del cavallo in questi paesi del Salento sia legata ad una tradizionale gara di cavalli che si teneva a Torrepaduli (frazione di Ruffano e, al pari di questo, luogo di produzione di terracotta): “Per la festa di Sant’Oronzo, in agosto, vi era questa gara in cui i cavalli erano costretti a trainare dei pesi enormi. Dovevano spostare dei carri appesantiti con pietre e altri pesi, e chi parteggiava per un cavallo o per l’altro menava frustate a destra e a manca per farlo camminare. Questa specie di gara è durata fino a una decina di anni fa, poi l’hanno vietata perché ritenuta troppo cruenta.

Riguardo al galletto – altro soggetto classico del fischietto – quello prodotto in Salento aveva spesso la coda adornata da vere piume di uccello. Ci racconta ancora Vito De Carlo: “I galli con le piume d’uccello vere, molto utilizzati ad esempio nella bottega dei Manco, erano molto comuni in Salento e si trovavano spesso anche nei mercatini. Le piume servivano per rendere più appariscenti e gradevoli i pezzi, ma anche per risparmiare tempo. Infatti fare la coda di creta e dipingerla richiede più lavoro che inserire le piume.”

Per quanto riguarda infine il fischietto a forma di tromba ritorta, Piangerelli e Sgrò[4] ipotizzano che si tratti della riproduzione in miniatura e a scopo ludico delle trombe utilizzate durante il lavoro agricolo; queste, sempre in terracotta, erano utilizzate nei campi per le segnalazioni. E sin da tempi remoti la trombetta era anche acquistata durante la fiera di San Rocco - che si tiene proprio nel paese di Ruffano - in segno di devozione verso il santo.

Certo è che dalle testimonianze degli artigiani non è possibile risalire all’origine di queste iconografie. Anche i Maestri più anziani riferiscono di avere appreso a modellare i fischietti in questo modo dai propri antenati, e di averli riprodotti fedelmente.
Vittorio Falcone: “Il cavallo lo abbiamo sempre fatto con tre zampe, 2 d’avanti e 1 di dietro. E poi facevamo il galletto con le piume dietro che sembrava un gallo ruspante.
Spesso questi fischietti li facevano i piccoli. Ne faceva uno il genitore e poi ti diceva: falli così. E ne devi fare 100, altrimenti non vai a dormire. E noi dovevamo completare quei 100 pezzi prima di smettere.”

Luigi Manco: “Il gallo lo abbiamo sempre fatto con o senza piume vere, anche all’epoca di mio Nonno”

I fischietti a stampo
Queste iconografie “arcaiche” dei fischietti salentini sono state perpetuate dai produttori fino ad oggi. Allo stesso tempo, nella seconda parte del XX secolo, si è assistito a una grande diversificazione delle forme, tanto che il Salento può essere considerato una delle aree con la maggiore ricchezza di iconografie di fischietti tradizionali.[5] Sempre la ricerca del MNATP[6] ha verificato che questa diversificazione dei soggetti avviene a partire dal secondo dopo guerra, e viene facilitata dal ricorso sempre più ampio alla tecnica dello stampo da parte di un certo numero di botteghe – comprese quelle di De Donatis e Manco.[7] Con l’uso degli stampi, la necessità vitale di contenere i tempi di esecuzione dei fischietti – che ovviamente dovevano avere un prezzo modesto – non era più di ostacolo all’introduzione di soggetti nuovi ma anche più accurati sia nella fattura che nella decorazione. Alcune botteghe iniziano dunque a produrre una gamma molto ampia di soggetti zoomorfi e soprattutto antropomorfi, come personaggi della vita di paese e delle campagne o militari in uniforme, tutti soggetti rappresentati spesso in chiave satirica.
Rispetto alla decorazione, il fischietto grezzo o ricoperto da una semplice smaltatura monocromatica viene sempre più spesso sostituito da pezzi decorati con una ampia gamma di vivaci colori a freddo. Gli artigiani si sforzano di utilizzare questi colori per evidenziare particolari dei vestiti o delle espressioni del volto, fino ad acquisire abilità proprie dei figurinai-decoratori.
Ad esempio la bottega Manco, che in precedenza aveva prodotto i soggetti dei fischietti più classici ricoprendoli con una smaltatura nera, bianca o marrone,[8] coglie in pieno le nuove opportunità offerte dalla tecnica dello stampo, ed inizia a realizzare un grande numero di soggetti di grande raffinatezza formale.

Luigi Manco: “Facevamo molti soggetti. Gran parte dei modelli che faccio tutt’ora e che vedete qui sono modelli antichi: i cavalli, i carabinieri, i corazzieri, e gli altri soldati; le donne con l’ombrellino, le calandre di diverso tipo, i galli, il gobbo, eccetera. Lavoriamo con la fantasia: troviamo sempre soggetti nuovi e poi li realizziamo come ci viene in testa.

Per poter fare più veloce si fa una forma di gesso: così con lo stesso tempo a disposizione, invece che 10 fischietti se ne fanno 50. Fai un originale e poi ricavi lo stampo versandoci sopra il gesso. Poi si mette la creta nello stampo, si uniscono le due metà, si preme un pochettino ed esce la sagomina.
Le mani si usano comunque: ad esempio in questo fischietto l’ombrellino, la borsetta e le mani sono aggiunte dopo aver usato lo stampo. E al carabiniere si aggiunge a mano un braccio – per fargli fare il saluto - e i piedi. E naturalmente si aggiunge il fischietto dietro e si decorano tutti a mano.
Questi stampi puoi utilizzarli per quanti anni vuoi. Ho ancora quelli di mio Padre e mio Nonno.”

Bisogna sottolineare che la tecnica dello stampo non ha sostituito in Salento il fischietto modellato a mano: al contrario, nei decenni seguiti al secondo dopo guerra e fino al giorno d’oggi convivono entrambe le tipologie di fischietto, e di solito lo stesso artigiano utilizza entrambe le tecniche. Infatti, se le botteghe Manco e Falcone si sono specializzate prevalentemente nella realizzazione di fischietti a stampo, quelle dei Toma e De Donatis li realizzano quasi interamente a mano. D’altronde sono molte e significative le eccezioni: Alessandro Manco realizzava a mano degli splendidi pezzi unici; i famosi cavalli a 3 zampe di Errico Falcone (non i cavalieri) sono realizzati a mano; Luigi Toma utilizzava spesso degli stampini per i visi dei personaggi antropomorfi, ed ha anche realizzato alcuni carabinieri con retro piatto ricavati chiaramente da uno stampo; [9] per quanto riguarda infine i De Donatis, Mario Giani, visitando nel 1995 la loro bottega, nota la presenza di fischietti fatti da stampi anche risalenti all’inizio del secolo, come un soldato in uniforme ottocentesca. [10]

Le “dinastie” di figuli del Salento
De Donatis, Falcone, Manco, Toma sono tutte famiglie di produttori figuli di antica tradizione. In alcuni casi questo è confermato anche da ricerche realizzate a partire dagli archivi anagrafici.[11] In ogni caso è la memoria orale degli ultimi discendenti di queste famiglie a raccontare di generazioni e generazioni di artigiani impegnati nella lavorazione della terracotta. Di solito gli artigiani intervistati non sono in grado di ricordare un antenato appartenente alla loro linea di discendenza diretta che facesse un mestiere diverso dal loro. E tutti i membri maschi – e non di rado anche le femmine – di queste famiglie, spesso molto numerose, erano dediti alla bottega di famiglia.

Salvino De Donatis: “Qualcuno ha fatto delle ricerche ed è risalito - con documenti alla mano - fino al 1650. Sin da allora a Cutrofiano i De Donato erano artigiani figuli. La “s” finale del cognome si è poi aggiunta nel tempo. Comunque da quello che mi raccontava mio Padre, e da quanto ricordo io stesso, tutti i nostri antenati, a cominciare da mio Nonno e dal mio Bisnonno, lavoravano la terracotta.

Tra i 7 figli di mio Nonno i maschi lavoravano tutti al tornio, mentre le femminucce erano più addette ad altre cose, come la preparazione dell’argilla.
Questo non vuol dire che le donne lavorassero di meno. Ad esempio, in famiglia si racconta sempre di questa Zia particolarmente attaccata al lavoro, praticamente non smetteva mai. Oggi, a 83 anni, ha un fisico asciutto come il mio, ed ancora bada all’intera famiglia. E questi artigiani di un tempo sono anche persone cariche di ironia, molto ironiche ed autoironiche
.”

Luigi Manco: “Il Padre di mio Padre, che si chiamava Lucio, faceva questo mestiere. E così ancora suo Padre, che si chiamava Giuseppe. Poi è venuto mio Padre, che era del 1903, e quando aveva 15 anni già aveva il laboratorio. Quindi io e i miei fratelli siamo della quarta discendenza.

Eravamo 6 figli, tre maschi e tre femmine. Noi 3 maschi abbiamo preso il mestiere di mio Padre, mentre delle tre femmine una faceva la tessitrice al telaio, un’altra faceva la ricamatrice e cuciva vestiti e l’ultima faceva il ricamo. Eravamo tutti artigiani insomma.

Io e i 2 fratelli maschi - Alessandro e Antonio - abbiamo continuato tutta la vita a lavorare la terracotta. Quest’ultimo, che era il più grande di tutti, se ne andò in Svizzera nel ’57 - perché qui, si moriva di fame. Ma partì con la speranza che quando tornava si metteva su un suo laboratorio. Mi diceva sempre: quando torno lavori per me. Poi è successa una sventura, ha avuto un incidente sul lavoro. Faceva il pittore, è caduto da 4 metri di altezza ed è morto. Aveva 46 anni, ha lasciato una moglie con due figli ed incinta dell’ultimo, che non ha mai conosciuto il Padre.”

Vittorio Falcone: “I Falcone hanno una tradizione antica nel fare questo mestiere, non so nemmeno io da quando. Sicuramente mi ricordo di mio Nonno ed anche di mio Padre.
La mia generazione eravamo 5 fratelli e tutti lavoravamo la terracotta. Di femminucce non ce n’erano.
Mio fratello Errico era il più famoso di noi per i fischietti, ma lavoravamo insieme e ci scambiavamo sempre i ruoli
.”

Luigi Toma: “Anche mio Papà e mio Nonno facevano questo mestiere.” E senz’altro anche il fratello di Luigi – Armando Toma - almeno in gioventù ha imparato il mestiere dal Padre, tanto è vero che dopo un periodo di interruzione è tornato a produrre dei fischietti particolarmente apprezzati dagli appassionati.

L’apprendistato in bottega
L’apprendistato dei Maestri figuli di Ruffano e Cutrofiano è stato analogo a quello di tanti artigiani del secolo scorso. Già dall’infanzia si cominciava a frequentare la bottega per imparare il mestiere e ben presto si era costretti a lasciare la scuola dedicandosi a tempo pieno al mestiere della terracotta.

Vittorio Falcone: “Sono entrato in bottega dopo la classe V elementare. Allora si usava così, anche se eri un bambino lavoravi come un operaio. Non potevi dire di no, altrimenti in famiglia non si mangiava.
A me il mestiere lo ha insegnato Antonio Falcone, mio papà; lui ha lavorato fino ad 82 anni ed ha fatto sempre fischietti, perché allora si vendevano
. “

Luigi Manco: “Ho iniziato a 7 anni, che ancora facevo le elementari. Mio Padre mi diceva: “quando esci dalla scuola vieni direttamente al laboratorio e cominci a fare qualcosa.” Ed effettivamente io e i fratelli quando uscivamo dalla scuola frequentavamo il laboratorio per imparare il mestiere. E praticamente ci siamo imparati. Poi sai, ti incominci ad appassionare e non vuoi più fare altro. Infatti ho fatto anche altre cose, ma a me mi piace fare solo questo. A volte mio Padre mi mandava a fare altri mestieri ma io protestavo: “Papà non mi piace!” “E che cosa vuoi fare?” chiedeva lui. “Qui voglio lavorare, qui voglio imparare!”.

Rivelatore è poi il racconto di Salvino De Donatis, che ci spiega come in realtà non sia possibile stabilire una età in cui cominciò ad affiancare il padre Vito nel lavoro, semplicemente perché la dimensione familiare era così strettamente legata a quella lavorativa da rendere le due cose inscindibili. Casa e bottega erano in fondo la stessa cosa e per quanto indietro possa andare la sua memoria, Salvino ricorda di avere avuto in qualche modo sempre a che fare con l’argilla e con l’attività produttiva.
Salvino De Donatis: “Da bambino ho iniziato a lavorare subito, anche perchè per noi il laboratorio e la casa non erano cose separate, erano tutto un agglomerato, diciamo. Avevamo la cucina e in quello stesso ambiente - un po’ staccato dal camino - c’era il tornio. D’inverno mia Madre scaldava l’acqua che serviva a mio Padre per lavorare e gliela portava. Poi preparava da mangiare mentre lui lavorava e magari gli diceva: assaggia le pittule, che sono calde. E lui si puliva un po’ le dita dall’argilla per mangiare. Son cose che a me sono rimaste impresse.
Ed io da ragazzino vivevo circondato dall’argilla ovunque. E da quanto mi ricordo ero proprio piccolo ma ero già impastato di quell’argilla. Credo che quando sono nato, che all’epoca si partoriva in casa, mia Madre mi avrà preso con le mani sporche di argilla. E infatti guarda caso io continuo: la nostra casa è qui, sopra al laboratorio: questo rapporto tra famiglia e lavoro non si è mai interrotto!”

Le antiche botteghe e la loro produzione
I laboratori tradizionali di Ruffano e Cutrofiano sono stati quasi interamente smantellati, e infatti nessuno dei Maestri intervistati lavora ancora nell’antica bottega di famiglia. Come testimonianza rimane qualche vecchia foto e magari qualche oggetto salvato a ricordo della bottega nella quale questi artigiani hanno passato buona parte della loro vita.
Chiediamo a questi Maestri di descriverci come erano fatte le loro botteghe e che tipo di produzione realizzavano – oltre ovviamente ai fischietti.

Salvino De Donatis: “Qui in paese non è rimasto niente di botteghe antiche, se non quella di un Colì che ha ancora il forno a legna. Non è in uso, chiaramente, però ancora la conservano per il suo valore storico. E’ l’unica che abbiamo a Cutrofiano.
D’altronde le botteghe di quando lavoravano i nostri nonni erano piccoline. Non erano adeguate al lavoro che si fa oggi, quindi sono state demolite, purtroppo.
E’ stato così per la bottega della mia famiglia, che era in questo stesso posto dove lavoro adesso, ma tanti anni fa era costituita da tre stanzette molto piccole.

Nella nostra bottega si facevano stoviglierie di uso domestico, come pentole e pignatte. Una produzione caratteristica era ad esempio il cofano, che serviva a fare il bucato. Era composto da tre pezzi: questo cofano - che era il recipiente più grande - poi c'era un vaso più piccolo, chiamato linbu - che serviva a far uscire l'acqua - e poi c'era il vacaturu - un recipiente tipo brocca che serviva a prendere l'acqua e a versarla dentro al cofano.
I torni chiaramente all’epoca erano tutti azionati col piede, non erano elettrici. Uno ancora ce l’ho, era di mio Padre.

Le stoviglie venivano smaltate appena, perchè allora se ne usava pochissimo di smalto. Non erano pezzi belli rifiniti come adesso, si metteva questo strato di smalto così sottile che quasi non si attaccava, e finiva per essere caratteristico dell'oggetto.

All'epoca, mio Nonno realizzava anche le tegole in terracotta per i tetti delle case. E mi raccontava mio Padre che c'erano giorni in cui occupavano tutta la zona circostante alla bottega con queste tegole stese ad asciugare. Poi magari veniva un temporale, e tutti i fratelli dovevano riportarle di corsa al coperto prima che la pioggia le rovinasse.

Si facevano anche tantissimi oggetti piccoli. Oltre ai fischietti, anche le campanelle, i salvadanai, le miniature. Le miniature erano una riproduzione in scala ridotta di tutti gli oggetti che servivano in casa all'epoca e che diventavano giocattolo per i bambini. Si facevano oggettivi non più grandi di 2 centimetri. Io continuo a portare avanti questa tradizione della miniatura.”

Luigi Manco: “La nostra bottega con la fornace a legna era in fondo a via Santa Maria di Leuca, dove ora ci sono le case popolari. L’abbiamo lasciata negli anni ’90, quando il Comune si è impossessato di tutto il terreno e l’ha buttata a terra.
C’erano tre stanze. Nella prima modellavamo, la seconda era per mettere i pezzi ad asciugare, e nella terza dormivamo, così poi alla mattina ti alzavi e ti mettevi subito al lavoro. A fianco a dove dormivamo c’era anche la fornace.
La nostra vita è stata un po’ sacrificata, però dico la verità: per me è stata una soddisfazione.

In questa bottega facevamo tutto, sempre con il tornio: tegami, piatti, coppe, bugie rotonde con sopra il manico – che erano come i cestini che si usavano una volta. E anche lo scaldino in cui si metteva il fuoco dentro e si teneva sulle gambe per riscaldarsi.
Quello è il tornio a pedale di quando era ragazzino mio Padre. Con il suo tornio e il mio lavoravamo uno di fronte all’altro. Me lo hanno chiesto ma non lo dò a nessuno, quando lo vorrò dare via lo porterò al museo.”

La preparazione dell’argilla
I Maestri continuano il loro racconto, descrivendo le varie fasi della lavorazione della terracotta, cominciando dalla preparazione della materia prima.
I banchi di argilla erano abbondanti sia a Cutrofiano che a Ruffano, ed ovviamente nelle botteghe del Salento - e fino ad anni piuttosto recenti - erano gli artigiani stessi ad occuparsi della preparazione della creta e nella maggior parte dei casi anche della sua estrazione .
Tutti i maestri intervistati sottolineano che si trattava di un lavoro faticoso, e che costituiva una parte non indifferente del lavoro della bottega.

Salvino De Donatis: “Qui a Cutrofiano ce n’è parecchia di argilla e per la lavorazione si utilizzava quella del posto.
Per quanto riguarda l’argilla bianca, quando si scavavano i pozzi per l’acqua ne usciva molta. C’erano diversi operai specializzati nel realizzare proprio questi pozzi e ogni artigiano prenotava presso di loro l’argilla. L’artigiano poi andava con un cavallo e un carretto, la pigliava e se la portava alla bottega.
Se invece l’artigiano aveva bisogno dell’argilla rossa, chiedeva il consenso per poterla cavare al proprietario di un terreno dove si trovava questa argilla. Si toglieva la parte superficiale e poi si cavava l’argilla buona.
Poi bisognava fare tutto il processo di preparazione. La terra veniva essiccata, poi messa a bagno, poi impastata con i piedi, in fine raffinata con le mani. L’argilla umida veniva impastata con quella che noi chiamiamo la farina, cioè l’argilla secca passata al setaccio. Così con i piedi e con le mani si impastava quella morbida mischiata con un po’ di argilla in polvere. E veniva fuori l’impasto per fare gli oggetti.

Ricordo che in estate essiccare l’argilla era più facile, ma quando era primavera bisognava stare attenti. Andava messa al sole però stando sempre attenti a non farla bagnare dalla pioggia. L’argilla quando è asciutta assorbe subito l’acqua, e quindi diventa una poltiglia. A quel punto anche se la fai essiccare nuovamente è inservibile, perché rimanegono delle parti più dure. Quella callosità, la cadda diciamo noi, era un problema per l’artigiano, perché non si riusciva a lavorare. E quindi se pioveva era la rovina, comprometteva ore di lavoro.
Di conseguenza si stava molto attenti al tempo e in caso di pericolo bisognava rientrare la creta nella bottega. Ragione per cui la creta in fase di essiccazione la trattavamo proprio come fosse un oggetto finito, si aveva la stessa cura
.”

Vittorio Falcone: “La creta si andava a cavare in campagna. Qui a Ruffano c’è la qualità rossa, quella da cucina, mentre quella bianca veniva da Montemesola in provincia di Taranto.

Preparare la creta era un lavoro faticoso, perché era sporca e bisognava togliere tutto il materiale cattivo. Dovevi togliere tutte le pietruzze, altrimenti durante la cottura il calore le faceva diventare calce e la pietra saltava lasciando il buco nel pezzo. Adesso si passa tutta al setaccio con le macchine e non c’è più pericolo.
Poi bisognava impastarla prima con i piedi, e poi a mano - come le donne fanno i maccheroni.”

Luigi Manco: “Con quella rossa si fanno le pentole, le pignatte per poter cucinare. Invece con quella bianca non puoi cucinare, è semplicemente per fare dei lavori più fini. I fischietti si possono fare con terra bianca e rossa, quella che avanza.

Quella rossa andavamo noi a prenderla. Dovevamo togliere prima uno strato di terra che poteva essere a seconda di mezzo metro, un metro, un metro e mezzo. Una volta tolto questo strato poi sotto c’era la terra buona.
Con la zappetta la tagliavi, la mettevi al sole, la facevi asciugare tutta. Poi si portava al laboratorio e la mettevi in un angolo, e come ti serviva la prendevi.
Si doveva pestare fino a ridurre le zolle a pezzi piccoli come una nocciolina. La mettevi a bagno e poi la dovevi impastare con i piedi, perché prima non c’erano le impastatrici.
Era un lavoro duro perché con i piedi nudi nell’acqua faceva molto freddo. Purtroppo questo mestiere è bello perchè ti inventi tante cose e rimani soddisfatto, ma passi pure molti di sacrifici. Prima però, oggi hai tutto: tornio elettrico, forno a gas, impastatrici…”

Luigi Toma: “La terra la prendevo qui a Torre, fuori dal paese. Si doveva prima togliere la parte di sopra, per esempio si scavava un metro, perché quella sopra non vale.
Prendevo la terra, la mettevo a bagno e poi ci passavo sopra con i piedi. La mettevo qui, mi toglievo le scarpe e i calzettoni e impastavo con un movimento così, come una danza. E si mischiava la terra con la polvere di argilla finchè non si impastava bene. Non dovevi aggiungere molta acqua, perché altrimenti serviva troppa polvere. Poi è uscita la macchina impastatrice e allora non abbiamo più usato le gambe
.”

La modellatura
Per quanto riguarda la modellatura dei manufatti, particolarmente significativa è la testimonianza di Luigi Manco, che ci racconta la fatica di una ordinaria giornata di lavoro in bottega: “Il giorno facevamo la roba grossa e la notte la roba piccola. Si lavorava così.
Dormivamo 3 o 4 ore al massimo, e poi ci alzavamo verso l’una-le due e facevamo i fischietti lavorando con il lume di petrolio o con la lanterna. Così dall’1 di notte fino alla mattina facevi già una giornata di lavoro, poi dalle 7 della mattina fino alla sera alle 5, alle 6 o anche alle 7 facevi un’altra giornata.
Alla sera, quando tornavamo dalla bottega, ci mettevamo tutti in famiglia e si mangiava. Perché allora si mangiava una volta al giorno solamente, la sera. Poi quando finivi di mangiare - alle 8 o alle 9 al massimo - ti andavi a coricare.
Insomma facevi 18-19 ore di lavoro. Oggi chi lo fa? Oggi un giovane non ha quella pazienza, quell’amore. Perché devi essere appassionato per fare questo lavoro
.”

Sempre Luigi ci sorprende spiegandoci di come, a volte, nelle botteghe degli anziani artigiani resistano sino ai giorni nostri tecniche di lavorazione considerate scomparse ed obsolete: “Abbiamo sempre usato il tornio a pedale, non abbiamo voluto modernizzarci prendendo un tornio elettrico. Siamo all’antica. Ogni tanto qualcuno veniva nel laboratorio e rimaneva stupito nel vederci lavorare con il tornio a pedale. Dicevano: ma come fate? Eppure io mi trovo meglio così.”

La cottura nel forno a legna
Alla modellatura seguiva ovviamente la cottura dei pezzi, eseguita rigorosamente nelle fornaci a legna.

Salvino De Donatis: “Noi di fornaci a legna ne avevamo 3, che alternavamo a seconda del materiale da cuocere: quanto più grandi erano gli oggetti più era grande il forno, proprio per una questione di convenienza.
Una fornace era grandissima, una casa insomma. Tanto che io quando ero troppo piccolo avevo paura addirittura a entrarci, perché pensavo di cadere dentro ai fori del solaio che divideva la camera di cottura dalla una camera di combustione. Questo forno più grande mio Padre lo ha usato fino agli anni ’60 o giù di lì.
Poi, quando sono cresciuto, nella maggior parte dei casi si usava quello medio. Anche questo era comunque un forno abbastanza grande: avevi bisogno di 100 fascine per portarlo a temperatura.
E poi c’era quello più piccolino che si usava per gli oggetti piccoli. Non era proprio piccolissimo, intendiamoci! Sarà stato di 2 metri cubi, mentre quello grande era di 4 e quello medio di 3 metri cubi.

Ricordo che il forno si accendeva la sera: si cominciava - per dire - alle 8 o alle 9 di sera, una volta finito di infornare. E si continuava fino alla mattina alle 7 o alle 8. Bisognava accenderlo gradatamente per fare salire la temperatura pian piano.

Abbiamo continuato a usare fino agli anni ‘70 i forni a legna più piccoli, fino a che non abbiamo preso il forno a gas nel ‘75. Per i primi anni si usavano entrambi, sia quello a gas sia a legna. Poi negli anni ’80 abbiamo smesso definitivamente e li abbiamo demoliti, anche perché i vicini iniziavano a lamentarsi del fumo. Prima qui era campagna, poi sono cominciate le costruzioni ed abbiamo dovuto smettere di bruciare la legna.”

Vittorio Falcone: “I pezzi li mettevamo nel forno a legna, e li cocevamo a 800 gradi di caloria. Se li facevi smaltati dovevi rimetterli al forno a 1.200 gradi di caloria.
Per la verità prima era davvero a legna, nel senso che per alimentare il forno c’erano le fascine soltanto. Poi abbiamo iniziato a usare la sansa di olive, che costa meno ed ha meno ingombro.”

Ancora una volta Luigi Manco rappresenta un singolare esempio di sopravvivenza di tecniche di produzione tradizionali. Il Maestro utilizza ancora oggi la cottura a legna: “Uso sempre il forno a legna. E’ più faticoso, ma ritorniamo al discorso di prima: io sono fatto così, non mi piace la roba meccanica, mi piace lavorare all’antica. Per la prima cottura si arriva sui 900 gradi, mentre per la seconda, con la roba tutta smaltata, si arriva sui 1.100, 1200, 1300.”

Cuocere i pezzi non richiedeva minore maestria che modellarli. Non poteva infatti essere lasciata al caso né la disposizione degli oggetti nel forno – che andavano impilati in un certo modo per guadagnare spazio ed evitare che i pezzi si rovinassero – né la scelta dei tempi con i quali aumentare o diminuire la temperatura.

Luigi Toma: “I pezzi li dovevi mettere nel forno uno sopra l’altro in un certo modo. Ad esempio la parte rotonda doveva andare con parte rotonda e il becco con il becco.
Con il forno a legna dovevi stare attento a capire quando smettere di buttare la legna. Se non ti regolavi bene con la temperatura il collo di qualcuna delle pentole che stavano sotto si schiacciava. E i vasi fatti in quel modo non li volevano neanche regalati!
Nel forno avevamo una piccola buca così per vedere dentro. E allora ti regolavi: nella prima cottura se la creta era proprio rossa significava che dovevi smettere di alimentare il fuoco. Oppure decidevi: butto la legna ancora tre o quattro volte.
Per la seconda cottura, quando vedevamo che le pentole si lucidavano poco poco, allora subito si doveva alimentare più piano.”

Anche nel raccontare della fase della cottura, i Maestri figuli salentini confermano che non sempre i fischietti rappresentavano una produzione marginale. Se a volte questi piccoli manufatti riempivano gli spazi lasciati liberi da oggetti più grandi, altre volte veniva cotto un forno appositamente per questi piccoli oggetti.

Salvino De Donatis: “I fischietti e gli altri oggetti piccoli li mettevamo in questi spazi che rimanevano tra un vaso e l’altro nell’infornata.
Però se ad esempio arrivava una fiera e mio Padre aveva bisogno di un centinaio di fischietti, era capace di farli tutti in una giornata – era molto veloce a fare queste cose – e riempirci un fornettino. Il fornettino lo costruiva lui stesso con dei mattoni che preparava quando aveva tempo e che teneva sempre a disposizione. E poi per cuocere ci volevano 4-5 ore
.”

Luigi Toma: “Quando preparavamo i fischietti per il fuoco ne mettevano 5-600, e li sistemavamo uno sopra l’altro.”

La decorazione dei fischietti
Dopo la cottura, i fischietti salentini erano spesso lasciati grezzi, oppure decorati - a freddo o con lo smalto - in maniera piuttosto essenziale. Venivano utilizzati materiali poveri - come calce e vernice per l’edilizia, o avanzi di smalto - e di solito ci si limitava a ricoprire i pezzi con un unico colore, magari sottolineando qui e li qualche particolare con una vernice diversa.

Salvino De Donatis: “Per la colorazione, all'epoca c'era la calce che faceva da base, e poi si applicavano i colori che servivano anche ai pittori per dipingere le case. Di smalti se ne usavano pochissimi per una questione di costi. Anzi, molti fischietti rimanevano grezzi sempre per una questione di costi. All'epoca si risparmiava su tutto, anche sui colori.”

Vittorio Falcone: “I fischietti si pitturavano con semplice pittura da muro. Usavi prima il bianco e poi sul bianco mettevi i colori che volevi.”

Più elaborata era la colorazione dei fischietti della bottega Manco. Come abbiamo detto, Serafino e i suoi figli erano stati tra i primi ad andare oltre il fischietto salentino più arcaico ed essenziale, specializzandosi nella realizzazione di figure a stampo piuttosto raffinate anche nella colorazione. Per questi pezzi si utilizzava una gamma di colori ampia per sottolineare i particolari del viso, dei vestiti, del pelo degli animali, e così via.
Luigi Manco: “All’epoca i colori li compravamo in polvere, e dovevamo andare a prenderli a Maglie. Per preparare il colore dovevi aggiungere a queste polveri un po’ di colla del falegname, che serviva come fissante, così non andava via il colore.
La colla una volta era solida, la dovevi pestare e sciogliere col caldo e ne mettevi un po’ nel colore. Aggiungevi alla polvere un po’ di acqua e colla e poi impastavi bene bene. E dovevi tenere questi colori sempre sul fuoco, perché quando la colla inizia a raffreddare allora poi i colori non puoi usarli più. Così dovevi tenere un tegame sopra al braciere, con l’acqua calda e i bicchieri dei colori dentro a bagnomaria. E li dovevi tenere sempre al caldo in modo che rimanevano sciolti.
Poi c’era anche il trasparente, quello lucido. Ne mettevi un poco sopra e il pezzo diventava lucido. Si usava a seconda del colore: se era chiaro non mettevi il trasparente, ma per esempio sul nero, o su un rosso scuro, se ne metteva un po’ e veniva una cosa più bella
.”

Le fiere paesane e lo smercio dei prodotti
Le principali occasione per smerciare fischietti ed altri prodotti erano per gli artigiani le fiere di paese. Altre volte si utilizzava il porta a porta, magari barattando la merce con prodotti alimentari. Normalmente era la famiglia dell’artigiano a occuparsi della vendita, senza l’utilizzo di intermediari.

Luigi Manco: “Eravamo molti artigiani di Cutrofiano, Lucugnano, Torre, che partecipavamo alle fiere. A noi è capitato di arrivare fino ad Avetrana o Taranto. Allora si andava con il traino: partivi alle 4 della sera e arrivavi alla mattina alle 6.

Non si guadagnava tanto. Delle volte andavi ai mercati e non vendevi tutta la merce. E allora per finirla dovevi girare per le case private a smerciare la rimanenza. Per una pentola ti davano in cambio per esempio un litro d’olio o un chilo di pane. Questo tipo di scambi si faceva allora, parlo del 1946-47.
Il traino non era nostro, veniva in affitto, e dopo la fiera lo mandavi via. E tu per finire la merce te la facevi a piedi o al massimo con qualche bus, quando c’era. Praticamente io una volta l’ho fatta a piedi da Nardò a qui. Anche da Santa Cesaria Terme a qui – che sono 38 km - l’abbiamo fatta a piedi. Quando arrivavi a casa eri sfinito.

Purtroppo quella era la vita che si doveva fare allora! Ma grazie a Dio siamo ancora qui. Anche mio Padre è sopravvissuto 88 anni lavorando sino all’ultimo, eppure ne ha fatta di strada a piedi! E dormivamo a terra, eh! Magari mettevamo sotto un sacco pieno di paglia.
Poi piano piano abbiamo iniziato a prenderci le comodità: la macchina per esempio. Purtroppo è stata una vita un po’ dura per noi. Comunque sono dei bei ricordi!”

Salvino De Donatis: “Quelle che facevano mio Nonno e mio Bisnonno sono le fiere che io continuo a fare anche oggi. Sono la Madonna della Luce a Galatina, la Madonna Addolorata a Maglie, San Giuseppe a Nardò. Poi c’è Ugento e una fiera specifica proprio per gli oggetti in terracotta a Taviano, chiamata la Tappedda. Poi c'era Sant'Irene a Lecce.

Quando ero piccolo ed ho cominciato a girare per le fiere, già si usava il camioncino, ma mi hanno raccontato molto dei viaggi fatti con il carretto. Succedeva qualche volta che il cavallo era stanco e non riusciva ad arrivare alla fiera; magari si buttava per terra e non voleva proseguire. O magari il carretto cadeva e riportava dei danni. E allora solo a fatica e con alcune ore di ritardo si riusciva a raggiungere il paese, quando tutti erano già là. Storie così, che raccontate adesso magari sembrano delle sciocchezze, ma bisogna considerare quanti sacrifici erano stati fatti all'epoca per produrre i pezzi e poterli vendere in quella fiera.
Poi i miei Zii mi raccontavano di certi stratagemmi che si usavano per fare andare più forte il cavallo, come con il peperoncino messo lì al cavallo… non so quanto fosse un fatto vero e quanto me lo dicessero per farmi ridere
.”

Vittorio Falcone: “La mia famiglia faceva le fiere di San Rocco, di San Marco qui a Ruffano, e della Madonna Addolorata a Maglie.
Da bambino io ci andavo, e noi figli vendevamo i fischietti per contro nostro, nel senso che gli incassi erano nostri. Praticamente era un modo con cui i genitori ci invogliavano a lavorare. Allora un fischietto piccolo poteva costare 50 lire, 100 quelli più belli.

Più di recente in una fiera esposi i miei fischietti con il cartellino del prezzo che era di 5.000 lire. Il signore del banco vicino al mio era incredulo: ma a quanto li venti questi fischietti? 5.000 lire? Ma come è possibile? Io li ho pagati 5.200 all’ingrosso!
In effetti erano proprio fischietti miei. Li avevo venduti a Colì di Cutrofiano a 3.500 lire l’uno e loro li avevano rivenduti a questo commerciante con un sovrapprezzo. In conclusione non ci fu modo di fare affari per questa persona, dovette chiudere bottega!”

Luigi Toma: “Andavo a 15 o 20 fiere in tutto l’anno, altrimenti non riuscivo a lavorare. Anche perché lavoravo per conto mio e dovevo fare tutte le cose da solo.”

Il futuro delle botteghe artigiane
Buona parte dei Maestri salentini sono oggi in pensione. Per loro la prospettiva è purtroppo quella di non avere eredi in grado di proseguire l’attività di famiglia.

Vittorio Falcone: “Ora siamo rimasti in 3 fratelli. E tutti e 3 siamo già in pensione. Con i nostri figli niente, la terracotta sparisce.
Anche i fischietti li abbiamo fatti fino a 6-7 anni fa, ma man mano che finiscono non se ne facciamo più.
Anche volendo non ha più senso: 15 anni fa i fischietti li vendevi a 5 euro, adesso si vendono a 2 euro e mezzo!


Luigi Toma: “Quando ho smesso io di lavorare è finito tutto. Ho una figlia che vive con me e un’altra a Ruffano, ma sono femminucce e non lavorano la terracotta.”

Fa fortunatamente eccezione la famiglia De Donatis, nella quale Salvino - che è oggi un uomo di mezza età - ha degnamente preso il posto del padre Vito nella conduzione dell’attività di famiglia. E già dopo di lui si affaccia una nuova generazione che sembra possedere per il mestiere della terracotta la stessa passione di quelle che l’hanno preceduta.

Vito De Donatis: “Mia figlia Claudia ormai è proprio del mestiere. Lavora da sempre insieme a me, io dico che è l’erede di mio Padre. Invece la Paola va all’Università: ieri ha dato un esame però come vedi è già qui in bottega che ci dà una mano.
Io sono contento che continuino questo lavoro. Gli dico sempre: se trovate di meglio fate pure un altro mestiere, però dovete trovare di meglio! A parità di condizioni conviene fare questo lavoro, che è molto creativo, lascia molti spazi, molta libertà. Dal punto di vista economico non so se convenga, ma qualche soddisfazione morale te la dà
.”



NOTE
[1] Paola Piangerelli e Francesca Sgrò, “Puglia” ,in Paola Piangerelli (cur.), La Terra, il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a MNATP, Edizioni De Luca 1995.
[2] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[3] Interessante è l’analogia con il cavallo a tre gambe di Pignataro di Broccostella, in Provincia di Frosinone. In questo caso si tratterebbe di una rappresentazione fallica: nella prospettiva frontale del fischietto la gamba di dietro può sembrare un lungo fallo. Ne è prova il fatto che questo fischietto venisse donato alle giovani spose come augurio di fertilità.
[4] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[5] Ci riferiamo comunque a fischietti prodotti da botteghe e artigiani tradizionali. Si prescinde quindi dalle produzioni più recenti, sia quelle di tipo più prettamente commerciale che quelle artistiche.
[6] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[7] Si trattava di una tecnica non particolarmente complessa, ma comunque estranea alla tradizione produttiva dei vasai salentini, da sempre abituati ad utilizzare il tornio e la modellazione a mano libera. I primi costruttori di fischietti a introdurre questa tecnica dovettero rivolgersi molto probabilmente alle botteghe dei figurinai, specializzati nell’utilizzo di stampi per la realizzazione di santi e figure da presepe.
[8] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[9] Questi carabinieri - presenti ad esempio nella collezione Lo Bosco - hanno una notevole somiglianza con quelli dei Manco, tanto da far supporre che lo stampo sia stato ricavato proprio da un fischietto di questi ultimi.
[10] Questo ceramista di grande raffinatezza noto anche come Clizia, lo scrive nel libricino ciclostilato e distribuito in un numero limitato di copie “Tre Uomini in Tenda, scorribanda appulo lucana nel mondo dei fischietti”, Anemos, 1995. Sempre in questo libricino, Clizia nota anche come Alessandro Manco in alcuni casi utilizzi ancora gli stessi stampi del Padre e del Nonno.
[11] Si veda ad esempio l’articolo di Alfredo Ligori “Vito De Donatis, artigiano e artista cutrofianese”, in Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n° 4/5, Ed. Congedo, Galatina, 2.000



FOTO


1. Fischietti tradizionali di Luigi Toma: uccello, cavallo a tre zampe, tromba, carabiniere, pupa, cane


2. Vito e Salvino De Donatis (foto Lo Bosco)


3. Fischietti di Luigi Manco: calandra, gallo con piume vere, personaggio con testa semovente (foto Croce)


4. Luigi Manco nel suo laboratorio


5. Fischietti di Errico Falcone (coll. Lo Bosco)


6. Luigi Toma al tornio (foto Lo Bosco)


7. Vittorio Falcone


8. Fischietti di Luigi Toma decorati (coll. Lo Bosco)


9. Fischietti di Severino Manco


10. I fretelli Falcone al tornio in una foto d'epoca


11. Fischietti di Severino Manco (coll. Garzia)


12. Sculture a tema religioso (senza fischietto) di Vito De Donatis (coll. Lo Bosco)


Galli di Armando Toma (coll. Lo Bosco)


I testi sono di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata


Segue II parte

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