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domenica 19 febbraio 2012

I Cucù di Tommaso Niglio: la tradizione e l’arte



Memorie e Suoni di Terra - conversazioni con i maestri artigiani costruttori di fischietti in terracotta

Tommaso Niglio rappresenta da un certo punto di vista un enigma: artigiano o artista del fischietto in terracotta? Produttore tradizionale che ha perpetuato fino ai nostri giorni i classici cucù materani, o innovatore in grado di rinnovare profondamente questi poveri oggetti, dando loro dignità di opera d’arte? Probabilmente l’unica risposta possibile è che il Maestro Niglio sia tutte e due le cose insieme. E forse proprio questo ne fa un personaggio unico nel mondo della ceramica sonora.
Il Maestro ci riceve nella cucina di casa, da lui trasformata in laboratorio di cucù dopo la pensione. Non sembra avere ottant’anni abbondanti: non li dimostrano né il carattere gioviale e vivace, né le mani che continuano a modellare e decorare fischietti di grande raffinatezza.[1]

Il rapporto tra la famiglia Niglio è il mondo dei fischietti va avanti da almeno tre generazioni. Il Nonno e il Padre[2] di Tommaso li realizzavano e li vendevano per integrare il reddito dell’attività principale, quella di fornaciai. Parte proprio da qui il racconto del Maestro: “Noi Niglio il cuccù lo abbiamo nel sangue, modestamente, senza presunzione. A Matera c’erano delle fornaci che facevano i laterizi. Mio Padre e mio Nonno avevano una di queste fornaci di mattoni e tegole. Ma era un lavoro stagionale, che si faceva sopratutto d’estate. D’inverno non avevano cosa fare, non si poteva lavorare. Così per mangiare si facevano i frischitt!

La tradizione comincia con mio Nonno. Poi ha continuato mio Padre e poi ancora io e mio fratello. Io all’età di 7 anni facevo già questi fischietti. Sono stato il bastone della vecchiaia di mio Nonno. Papà se ne venne dalla Prima Guerra Mondiale rovinato, e come invalido di guerra ebbe un impiego da messo comunale. E allora ero io ad aiutare mio Nonno, che era invecchiato, a portare avanti il suo lavoro con i fischietti. Lui li faceva e li cuoceva in una fornacetta, ed io li pittavo. E poi li andavamo a vendere. Quindi mio Nonno è stato il mio maestro.”

Il Maestro Niglio – Masino come più modestamente ama farsi chiamare dagli amici – ci racconta poi quali fossero le forme tradizionali dei fischietti che ha imparato a modellare sin da bambino. Oggi i fischietti realizzati da Tommaso e da molti autori materni sono famosi per la ricchezza degli ornamenti e per il loro gusto un po’ barocco. Ma i fischietti della sua infanzia erano rustici ed essenziali: essendo oggetti destinati a finire nella mani di un bambino e a durare pochi giorni, erano privi persino del piedistallo. Le forme più comuni erano la trombetta dritta o arrotolata, il carabiniere nella versione a piedi ed a cavallo, la dama nota come pupetta, e soprattutto il cucù più classico, il gallo ornato da strisce blu, gialle, rosse e verdi su sfondo bianco.

“Il cuccù tradizionale era semplice, senza l’albero[1] e senza piede. Sotto ci si metteva come un capezzolo, affinché poggiandolo stava fermo e non rotolava. Spesso ci si metteva un nastrino bianco, la capisciola, che si legava attorno al collo della bambina o del bambino per evitare che andava per terra. A Gravina lo chiamano la cola cola, ad Altamura u bubbù, a Matera u cuccù, ma più o meno era lo stesso fischietto.

Noi sulla testa dell’uccello ci mettevamo delle specie di corna. E ancora oggi la maggioranza della gente vuole che lo faccia così, perché è più tradizionale.

Anche il fischietto del carabiniere è senz’altro una tradizione di Matera. Tanto che anni fa - io non ero nato ancora, è roba degli anni ’20 - mio Padre fu fermato da una pattuglia dei carabinieri mentre vendeva questi fischietti. La pattuglia vedendo questi carabinieri con il fischietto al sedere disse: Come si permette? Si accomodi in caserma! Il maresciallo di stazione conosceva la nostra tradizione, e allora disse alla pattuglia, che era fatta da giovani appuntati: potete andare. Rimasto solo con mio Padre gli disse: allora, Niglio, come la mettiamo? E mio Padre rispose: maresciallo, lo mettiamo alla Madonna ‘u fischietto, non l’amma mettere a ‘u carabiniere?“

La fornace dei cucù

I cucù tradizionali venivano modellati dalla famiglia Niglio quasi interamente a mano. L’uso degli stampi era molto limitato e riguardava esclusivamente i visi della pupa e del carabinirere.[2] Poi venivano cotti in piccole fornaci costruite ad hoc: “La fornace della mia famiglia era a via La Croce. Tutta quella zona a cominciare dall’ex passaggio a livello, da via XX Settembre, fin qui, era tutta argillosa. E allora c’erano 5 o 6 fornaci di mattoni laterizi, tra cui i Niglio e i Morelli.

La fornace per i fischietti però la facevamo noi, con le mani nostre. Perché la fornace dei mattoni era grandissima, e per cuocerla ci volevano 24 ore di fuoco. Mentre la fornace per questa roba era piccolina come il forno di una cucina. Si faceva una piccola vasca e si creava la volta di questo forno.

Per alimentarla utilizzavamo i ceppi di macchia, la macchia mediterranea. Perché il ceppo fa la brace, ma non fa la fiamma. La fiamma li faceva rompere, mentre la brace faceva lo sfumo: se c’è umidità dentro, la fa andare via. Dopo che i fischietti diventavano neri come il carbone allora ci si metteva la paglia. E si coceva questa paglia. E diventavano rossi come quando il ferro si fonde e diventa rovente.
Si arrivava a 750 gradi, quindi i fischietti erano mezzi crudi. Se pure ci riuscivi ad arrivare a quella temperatura, perché poi dipendeva dal clima. Se era scirocco coceva avanti. Se era tramontana coceva dietro.

Una volta mio fratello mise dei cucù nel forno moderno. Noi eravamo abituati che mettevamo il ferro filato nei fischietti. Ma oltre i 900 gradi si bruciarono tutte le parti di metallo, e quando tirò fuori i fischietti i pezzi legati con il metallo erano tutti caduti.”

In una fase successiva, quando ormai la fornace di laterizi della famiglia era stata dismessa, i fischietti venivano cotti da Tommaso e suo fratello Giuseppe all’interno della grotta di via Pennino, da loro usata come deposito di materiale per la loro attività di decoratori. Qui i due fratelli si erano costruiti una fornace fatta di mattoni refrattari tenuti insieme da un impasto di argilla e paglia.[3]

“Quando mio Nonno ha venduto la fornace, abbiamo creato una fornace per cuocere i fischietti nella "bottega", un luogo nel quale avevamo le scale, i colori e tutto quanto serviva per l'attività di decorazione.”

La fornace aveva la forma di un tronco di cono dell’altezza di un metro e mezzo. La camera di combustione era ricavata in una buca nel terreno. Anche in questo caso il forno veniva alimentato con radici di macchia mediterranea. Da un certo punto in poi la paglia venne invece sostituita con trucioli di legno, che erano più pratici e prendevano fuoco più velocemente.

I fischietti venivano disposti con cura all’interno della fornace in strati circolari e su una apposita griglia. La cottura durava tutta una notte.

“In questi forni a legna fare le cotture era difficilissimo, e non vi dico quanti pezzi si rompe
vano durante la cottura. E i fischietti non venivano belli tutti uniformi come adesso. Poi finalmente sono arrivati i forni elettrici: vorrei dare un premio a chi l’ha inventati! Grazie alla tecnologia nei forni moderni non ti si rompe un fischietto.”

La decorazione dei fischietti

La decorazione dei fischietti era organizzata come una catena di montaggio in cui era impegnata tutta la numerosa famiglia Niglio, donne comprese. La base del colore era costituita da un bagno di calce nel quale i pezzi venivano immersi quasi completamente. Sopra al bianco venivano poi stesi quattro colori fondamentali ricavati da terre naturali: verde, blu, giallo, rosso. La colla di pesce mescolata a questi colori agiva da fissante, ovviamente precario.

“Per il bianco si usava la calce passata al setaccio, bella pulita. Si pigliava il fischietto da ddà e si calava nel bidoncino della calce. Ci si immergeva tutto il cucù, e si salvava solo la parte da mettere in bocca. Poi si faceva scolare questa calce.

I colori venivano sciolti con la colla di pesce per farli durare di più. Quando era inverno avevamo il braciere e per farli squagliare li mettevamo sul fuoco. Però dopo un po’ questa colla perdeva la presa, e ci si sporcava le mani con i colori. Invece i colori che si usano adesso sono colori acrilici, non vanno mai via, li puoi anche mettere sotto l’acqua.”

La vendita

Rispetto alla vendita dei fischietti, i ricordi di Tommaso Niglio sono legati soprattutto a tre diversi luoghi di Matera e dei suoi dintorni: “Insieme al Nonno andavamo a vendere i nostri lavori a Picciano nelle domeniche di maggio, o ai Cappuccini nel giorno di Pasquetta. E anche a Cristo la Gravinella nei venerdì di marzo.

A Matera abbiamo la chiesa rupestre del Gesù la Gravinella, dove ogni venerdì di marzo si celebrano le messe. Ed io già a 7 anni facevo queste cose qui e le andavo a vendere alle persone che andavano a messa.

La Pasquetta noi a Matera la chiamiamo “i Cappuccini” perché la scampagnata si svolgeva giù alla chiesa dei cappuccini. Li c’è una croce con dei gradini, e lì mio Padre con mio Nonno mettevano le cassette con dei fischietti su questi gradini.”

Ma il luogo più importante per la vendita dei fischietti era senza dubbio il santuario di Picciano. Tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del ‘900 il santuario si configurava come uno dei principali luoghi di devozione della comunità agro pastorale dell’area al confine meridionale tra Puglia e Basilicata. Soprattutto in occasione delle feste mariane del santuario – distribuite tra la primavera e l’estate – i pellegrini vi arrivavano numerosissimi. Prima della costruzione della strada carrabile i fedeli affluivano a piedi o su carri trainati da muli da tutta una serie di paesi del circondario.

“Il santuario di Picciano è molto rinomato specialmente per i Pugliesi. Veniva gente da Santeramo, Altamura, Gravina di Puglia. Erano 5 le giornate di festa. E’ festa grande la prima domenica di maggio, poi l’Ottavario, la Pentecoste, l’Annunciazione e l’8 di settembre - che è la natività della Madonna, di Maria Vergine.”

E’ documentato come per lo meno dall’inizio del ‘900 il fischietto fosse un oggetto-ricordo del pellegrinaggio molto ambito dai visitatori e di come la famiglia Niglio - insieme ai Loglisci di Gravina - organizzassero l’intera produzione invernale di fischietti in funzione delle feste mariane di Picciano. [4]

Nei primi del ‘900 Giuseppe Niglio aveva lavoraro per il Comune alla costruzione di alcuni locali annessi al santuario e destinati ai contadini mezzadri della zona. In cambio, la famiglia Niglio ottenne l’uso di uno di questi locali, che fu utilizzato fino agli anni ’40 per la vendita dei fischietti.
“Noi a Picciano tenevamo una camera, perché quando mio Nonno fornì del materiale edilizio al comune per costruire queste camere a Picciano, si riservò il diritto di tenerne una. Portavamo i fischietti col traino. Il santuario è in collina, e allora la strada era una mulattiera brutta per salire.

Di fischietti ne vendevamo tanti: li compravano soprattutto le famiglie per i bambini. Nelle domeniche di maggio quando finiva la Via Crucis e la Madonna entrava in Chiesa, tutti i forestieri venivano nel nostro locale e compravano tutti i nostri cuccù prima di ritornare al loro paese. Era da non credersi la ressa che si creava per quanti volevano acquistare i nostri fischietti! Ma non è che si guadagnasse tanto: costavano una sciocchezza. Solo oggi queste cose vengono apprezzate.”

Oltre la tradizione

Come in tutto il resto d’Italia la produzione tradizionale di fischietti subì un tracollo a partire dal secondo dopoguerra. La stessa famiglia Niglio cessò la produzione sin dalla fine degli anni 40.

A partire dagli anni ’70, la tendenza si è invertita grazie alla ripresa di interesse verso i fischietti da parte di un pubblico più colto, fatto di appassionati di tradizioni popolari, studiosi e collezionisti.

A differenza di gran parte dei produttori tradizionali, Tommaso Niglio non si è tuttavia limitato a recuperare e riproporre le forme dei fischietti classici. Al contrario, Masino ha accettato in pieno la sfida posta da questo nuovo mercato, dando il via a una produzione sempre più elaborata ed accurata sia nelle forme che nella decorazione. In questa sua evoluzione artistica Tommaso era affiancato dal fratello Giuseppe, almeno fino alla sua prematura scomparsa.

Insieme alla crescente domanda da parte dei collezionisti, una serie di circostanze fortunate hanno favorito la trasformazione di Masino da artigiano ad artista del cucù. In primo luogo il suo naturale estro creativo, che per tutta la vita lo aveva spinto sempre un passo oltre i canoni delle semplici forme tradizionali. Inoltre il mestiere e l’esperienza da rifinito decoratore gli hanno fornito gli strumenti tecnici per reinterpretare il cucù anche dal punto di vista della stesura del colore, che si è fatta sempre più raffinata e piena di sfumature.

“Io e mio fratello abbiamo sempre creato. Perché nella tradizione i fischietti si

facevano semplici, ma noi man mano li abbiamo elaborati. In questi album di foto ci sono centinaia di pezzi. Questa è la Madonna di Picciano, questo è Pulcinella che mangia gli spaghetti, questo è Totò con il corpo di un pollo, questa è la chiesa di Picciano, uguale e precisa com’è, questi sono tutti animali surreali.

Ho fatto una rivoluzione: sui pezzi applico tutti questi animaletti oppure altre decorazioni, per esempio questi corni e questi dadi. Quando cuocio i cuccù ci inserisco dentro questi legnetti che si bruciano nel forno e mi lasciano il buco. Dove c’è il buco lasciato dal legno io attacco questi animaletti con il mastice di marmo e un pezzetto di filo di nikel cromo.

Oggi un pezzo come questo può avere un valore notevole. Però è anche vero che io ci metto 2 giorni a farlo e 3 giorni a pittarlo, quindi sono 5 giorni di lavoro. Dunque dovrebbe costare almeno 500 euro, perché il costo di una giornata di un operaio specializzato è di 100 euro. Ma tutti quei soldi non te li da nessuno. Quindi non è per lucro, è solo la passione che ci fa andare avanti. Perché la passione a me non me la toglie nessuno, solo la morte.”

Il fatto che Masino non abbia rifiutato la modernità, e sia stato anzi un innovatore nelle forme e nei materiali, non significa tuttavia che non continui ad avere un legame profondo con la tradizione.

“Ci sono studiosi che sanno vita e miracoli di questi fischietti. A Matera abbiamo un Professore che è molto esperto di queste cose, si chiama Spera.[5] Una volta mi vide mettere gli occhi ad un cucù, e disse: ecco, vedi Tommaso, 2000 anni prima di Cristo, non sapevano scolpire con la stecca come si fa oggi. E allora per fare gli occhi prendevano una semplice pallina e la applicavano, proprio come continui a fare tu. Mi raccomando, mantieniti sempre sulla tradizione!

Così per il viso e le mani della pupetta e del carabiniere noi non li pittiamo, li lasciamo di colore bianco calce. E la posizione delle mani è particolare.[6] Il Professore mi ha spiegato che così facendo continuiamo una tradizione antica e mi ha detto: lasciali sempre così. Dovete mantenere questa tradizione. ”

I mille mestieri di Masino

Per Masino, come per le generazioni precedenti della famiglia Niglio, la fabbricazione dei cucù è stata solo un mestiere tra i tanti. L’iniziativa non gli è mai mancata ed ha iniziato giovanissimo: nella miseria degli anni ‘40 Tommaso si inventava mille espedienti per aiutare la sua numerosa famiglia a mettere insieme un pasto. In quel periodo è stato raccoglitore di olive, carbonaro, fuochista, suonatore di serenate.

Pian piano, lui e il fratello Giuseppe riuscirono a specializzarsi come decoratori, mestiere che avrebbero poi svolto per tutta la vita.

“La nostra qualifica era di pittori decoratori, però sapevamo fare di tutto. Mettevamo la carta da parati, la moquette…. Non è che gli imbianchini pittavano solo i muri. Noi artigiani del meridione facciamo tutto, modestamente. Siamo delle perle!

Quando avevo 7 anni dopo la scuola andavo dal maestro di pittura. A 14 anni, grazie ai metodi di insegnamento di un tempo, ero già pronto per l'attività che ho svolto nella vita: quella di pittore e decoratore di interni. Ho tinteggiato a Matera centinaia e centinaia - forse migliaia - di appartamenti. Quelli fatti grazie alla legge speciale di Alcide De Gasperi per la gente che viveva nei Sassi.”

La passione per la musica

Oltre ai cucù, un altro grande amore ha accompagnato tutta la vita di Masino, quello per la musica. D’altronde, come spiega lui, musica e fischietti sono due facce di una stessa medaglia.

“A me piace tutta l’arte! Come invento tutti questi cuccù, così invento la musica. Con sole 7 note fai un oceano di note e con 7 colori, fai un oceano di colori. Lo dico senza presunzione: ho inventato sempre.

Dall’età di 13 anni ho suonato la chitarra come autodidatta. Un maestro imparava la chitarra a mio fratello, e io guardavo e imparavo. Quando avevo 13 anni è scoppiata la guerra, il 10 giugno del ‘40. Furono tutti richiamati alle armi dalla classe del 1910 fino al ‘20. E a Matera rimasero solo gli anziani. Allora io con la chitarra ero la mascotte di questi anziani fisarmonicisti, e mi chiamavano per accompagnarli con la chitarra.

Nel 1944 Tommaso decise che era giunto il momento si passare alla fisarmonica. Il fratello Francesco racconta come lo strumento fu acquistato grazie al prestito concesso da un rivenditore di carbone che, intuiti il talento e la passione del giovane, si improvviso Mecenate. Il debito fu restituito da Masino grazie al suo lavoro di caricatore di carbone sui traini e ai primi ingaggi come musicista.

Ho suonato la chitarra per quattro anni, ed ero anche bravo, un gioiello! Poi ho preso la fisarmonica, sempre da autodidatta, ad orecchio.

Facevamo le serenate, che erano una cosa desiderata e bellissima! Quando era una cosa seria facevamo qualche pezzo come “Tu non mi lascerai perché ti voglio bene”, un brano di Giovanni D’Anzi.

Quando invece facevamo questione con la zita si faceva la “serenata a caricatura”, cioè a sfottimento. Io suonavo dei cuccù con 7 note, tipo ocarine, che facevo io stesso. Per me non era tanto difficile realizzarli, perché ero già avviato nella musica. Naturalmente la chitarra veniva accordata secondo l’altezza del cucù, e io con il cucù suonavo la melodia. E facevamo “girogirotondo” e poi “rabbia, rabbia che tu hai, me la metto sotto i piedi”. La mattina dopo per tutto il vicinato era uno sfottò: hai sentito ieri sera la serenata a caricatura del fidanzato tuo?”

Nel 1949 Tommaso fondò la Hot Jazz, un quintetto ispirato alle orchestre jazz statunitensi. Non si trattò di una meteora, ma di un complesso destinato a influenzare un cambiamento nella cultura musicale materna, ed a durare per numerose decadi.

A 20 anni suonavamo la musica jazz in un gruppo, con mio fratello che faceva il chitarrista. Allora si usava un ritmo che si chiamava bebop. Negli anni ‘60 abbiamo suonato molte volte a Bari: al Kursal Santa Lucia, al Circolo Unione, e alla Sirenetta a Mare, dove venivano tutti i “capoccioni” di Bari. Loro di 60 anni e noi uagnedde[7] di 20 anni, ma tutti vestiti eleganti in giacca. Il gruppo si chiamava Hot Jazz. Le prime volte che ci presentammo come Hot Jazz di Matera…buuu, veniva giù un boato! Allora dicemmo al cantante: non lo dire mai che siamo di Matera, perché era una risata continua. Erano delle umiliazioni: ci dicevano: “l’orchestra dei Sassi!”. Perchè adesso i Sassi hanno tutto un valore storico, ma allora avevano una cattiva fama.”

Masino caposcuola del moderno Cucù

L’operazione di rielaborazione del fischietto tradizionale ha fatto del Maestro Niglio un autentico caposcuola. La sua influenza nel mondo della ceramica fischiante è presente in tutta Italia - dove numerosi artisti che si dedicano oggi alla costruzione di fischietti gli sono debitori - ma è particolarmente viva nella sua Matera. E’ lui ad aver creato lo stile del cucù “fiorito”, dalla modellatura ricca di appendici e particolari, e dalla decorazione raffinata. Non di rado si può poi parlare di una “discendenza artistica” diretta, nel senso che per lo meno due generazioni di artisti materani hanno appreso direttamente da Masino l’arte del cuccù.[8]

E il Maestro continua a darci le sue lezioni.

Testi di Massimiliano Trulli e Tina Festa - riproduzione vietata. Contatti: massitrulli@gmail.com

NOTE

[1] Il gallo sormontato da un albero della vita è diventato negli ultimi decenni uno dei fischietti di Matera più riprodotti e apprezzati.

[2] Attualmente, per il viso della Pupa viene usato lo stampo antico di una Madonna con le braccia incrociate, realizzato da Giuseppe, fratello di Tommaso.

[3] Di questa fornace ci racconta nei dettagli anche un fratello minore di Tommaso, Francesco Niglio (A. Mazzilli op. cit.)

[4] P. Piangerelli (cur.), La Terra, il Fuoco, L’Acqua, il Soffio – la collezione dei fischietti di terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Edizioni De Luca 1994

[5] Il Professor Enzo Spera, che insegna attualmente all’Università del Molise, si occupa da decenni di ceramica popolare e fischietti in terracotta. Si vedano ad esempio gli articoli “I fischietti in terracotta del Museo “Domenico Ridola di Matera: alcune ipotesi interpretative” in P. Piangerelli, op. cit. o “Il soffio figurato. Fischietti in terracotta e pratiche rituali” in Luigi Fosca (cur.), Fischia il Gallo – galli e galletti dalla tradizione popolare italiana alla produzione ceramica contemporanea, 2011.

[6] Le braccia dei fischietti antropomorfi dei Niglio sono innaturalmente lunghe e arcuate, mentre le mani sono poggiate sull’addome.

[7] “Ragazzini” in dialetto materano

[8] Tra gli altri sono stati “a bottega” da Niglio alcuni dei più brillanti costruttori di cucù come Vincenzo e Umberto Melodia, Antonella Mazzilli, Nicola Festa. Ed attraverso quest’ultimo si può dire che abbiano attinto alla Scuola di Niglio anche Pico e Maria Bruna Festa

FOTO

1. Tommaso Niglio al lavoro; 2. Albero della vita (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna); 3. Pupa a cavallo (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna); 4. Cucù con angelo (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna); 5. Cucù con albero della vita (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna); 6. Trombetta arrotolata; 7. Carabiniere senza piedistallo

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