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lunedì 5 settembre 2011

I Maestri dei fischietti salentini: De Donatis, Falcone, Manco, Toma

Memorie Suoni di Terra - conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore

(I PARTE)


Non si viveva di soli fischietti!” Quante volte, durante le interviste con gli artigiani della terracotta, ci siamo sentiti ripetere questa frase. Per quanto attaccati a questa tradizione appresa dai loro avi ed pò magica di plasmare la terracotta facendone uscire un suono, quasi tutti i costruttori tradizionali di fischietti - dalla Sicilia fino al Veneto - ci hanno sempre spiegato che il reddito ricavato da questi oggetti era sempre stato marginale nell’ambito della loro attività di vasai, fornaciai, figurinai.

Quasi tutti gli artigiani, appunto, ma non tutti. Fanno eccezione i produttori di Ruffano e Curofiano, due paesi del Salento interno che distano tra loro appena 15 km, e nei quali la produzione e la vendita dei fischietti ha rappresentato nel corso del XX secolo una risorsa importante per le numerose botteghe di artigiani figuli, a volte la principale.
E’ quanto emerge dalla testimonianza dei 4 artigiani che abbiamo intervistato. Si tratta di alcuni dei Maestri del fischietto più apprezzati da appassionati e collezionisti, o che comunque possono vantare con questi Maestri una discendenza diretta.

Spiega Salvino De Donatis, ceramista di Cutrofiano e figlio di Vito De Donatis: “I fischietti si modellavano sopratutto in inverno e si vendevano durante le fiere estive. Mio Nonno aveva 7 figli, e tutti davano una mano a modellarli, così riuscivano a farne una grande quantità. Ci riempivano delle cassette e poi verso marzo, quando cominciavano le fiere, andavano avanti a venderli per tutta la stagione fino all'estate.
Quando mio Nonno andava in giro per fiere e mercati vendeva tantissimi oggetti piccoli, come i fischietti, ma anche le campanelle e le stoviglie in miniatura. All'epoca non c'erano molti giocattoli, e questi erano i regali che si acquistavano ai bambini nei giorni di festa.

Poi bisogna tenere presente che ogni paese ed ogni fiera avevano una loro caratteristica particolare, nel senso che si vendeva di più un certo prodotto o un altro. Quindi nella bottega si faceva di tutto, però in occasione della fiera si produceva di più quel tipo di cose.
Ad esempio per Maglie facevamo molte campanelle e fischietti. A Lecce andavano di più le miniature: si portavano dei carri interi pieni sopratutto di miniature. E quindi per quelle occasioni si riempivano forni interi di fischietti o miniature. Mentre nel periodo di Pasqua veniva fatta questa fiera della Madonna della Luce a Galatina e lì dovevamo portare tanti cofani, quelli per fare il bucato.
Poi magari anche tra gli artigiani c'era quello specializzato più in una produzione, e quindi portava alle fiere più quegli oggetti. Mio Nonno era specializzato più in questi giocattoli: il fischietto, la miniatura, e la campanella. Ma in particolare Nonno era uno specialista del fischietto, così come lo era mio Bisnonno e chiaramente mio Padre.”

Anche Vittorio Falcone, produttore di Ruffano e fratello di Errico, ci conferma che nella sua bottega la vendita dei fischietti superava quella degli utensili in terracotta: “Si guadagnava più con il fischietto che con il resto della produzione. Allora i bambini compravano molto i fischietti e le miniature dei tegami per la cucina, perché non c’erano giocattoli di plastica."

Altro produttore di Ruffano è Luigi Manco, figlio di Serafino e fratello di Alessandro. Racconta Luigi: “Di fischietti ne vendevamo tanti soprattutto ai mercati: i giovani allora li compravano e li regalavano alla fidanzata, o le fidanzate al fidanzato. O magari si regalava all’amico o alla comare.” Da notare che la bottega dei Manco realizzava e vendeva inoltre pupi da presepe.

Ultimo Maestro intervistato è Luigi Toma, che lavorava a Torrepaduli, frazione di Ruffano. Toma ci racconta come la produzione di fischietti fosse tutt’altro che marginale, anche da un punto di vista numerico: “Di fischietti ne modellavo 70-80 al giorno. E poi ne cuocevo 5-600 pezzi alla volta. Di più non si poteva, perché se vai piano-piano riesci, ma se fai di corsa un terzo dei fischietti ti si rompono.”

Una ulteriore conferma dell’importanza dei fischietti nell’economia delle botteghe figule salentine ce la fornisce l’autorevole studio del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni popolari sui fischietti tradizionali italiani.[1] E’ infatti documentato che nei primi decenni del XX secolo fossero numerose le aziende artigiane del Salento che realizzavano fischietti, e che tra i principali paesi produttori c’erano Ruffano, Cutrofiano e San Pietro in Lama. Una cosa molto interessante che emerge da questo studio è come un secolo fa queste botteghe non si limitassero a una produzione destinata alle fiere locali. Era anche usuale la commercializzazione dei fischietti salentini in altre regioni italiane - come la Calabria - e persino all’estero - in particolare in Albania e Grecia.

Le forme dei fischietti tradizionali del Salento
Negli ultimi decenni, i fischietti salentini e pugliesi sono stati caratterizzati da una esplosione di forme e colori all’interno dei quali non è facile rintracciare quali siano i soggetti più antichi e aderenti alla tradizione. Il testo del MNATP[2] e le interviste realizzate con gli artigiani ci consentono però di dire che all’inizio del XX i fischietti venissero foggiati in un numero limitato di forme: l’uccello, il gallo, il cane, la tromba, il cavallo, il carabiniere ed il fischietto ad acqua noto con il nome di calandra. Erano fischietti modellati prevalentemente a mano, di fattura elementare, spesso decorati sommariamente o non decorati affatto. Non si trattava di fischietti globulari, ed il modulo sonoro era dunque aggiunto alla figura.

Vittorio Falcone: “Facevamo i modelli di fischietti antichi, come la trombetta, i cavallucci, i cagnolini. E poi il carabiniere in divisa - a cavallo e anche senza cavallo.
I fischietti li facevamo tutti a mano, tranne il carabiniere. Quello dovevamo per forza farlo a stampo perché c’erano tutti i particolari della divisa e del cappello.
C’erano anche quelli fatti con il tornio, ad esempio se dovevi fare una figura con la pancia vuota dentro.
Facevamo anche il fischietto ad acqua. Si metteva un uccello sopra e fischiava come un fringuello. Si chiama calandra.


Salvino De Donatis: “I soggetti che andavano di più erano qualche animaletto – come l’uccello, il galletto, il cagnolino – e le figure antropomorfe.
Mio Padre mi racconta che modellavano queste figure un pò allungate, un pò stilizzate. Chiaramente dovevano essere figure molto semplici, perché bisognava farne tante e venderle per pochi soldi, quindi non andavano a curare troppo i dettagli.
E poi in casa si è sempre parlato anche di questo fischietto ad acqua, la famosa calandra. Il nome calandra proviene da un uccello che nidificava molto in queste zone e faceva questo suono particolare
.”

Si tratta di iconografie tutto sommato simili a quelle dei fischietti popolari delle altre regioni d’Italia (e non solo). In Salento, tuttavia, si registrano alcune particolarità.
Ad esempio il fischietto raffigurante Il cavallo – con o senza l’aggiunta del cavaliere – di solito è rappresentato con tre gambe: due davanti ed una sola dietro.[3]
Vito De Carlo, appassionato e cercatore di fischietti pugliesi sin dagli anni ‘80, ipotizza che la diffusione del fischietto del cavallo in questi paesi del Salento sia legata ad una tradizionale gara di cavalli che si teneva a Torrepaduli (frazione di Ruffano e, al pari di questo, luogo di produzione di terracotta): “Per la festa di Sant’Oronzo, in agosto, vi era questa gara in cui i cavalli erano costretti a trainare dei pesi enormi. Dovevano spostare dei carri appesantiti con pietre e altri pesi, e chi parteggiava per un cavallo o per l’altro menava frustate a destra e a manca per farlo camminare. Questa specie di gara è durata fino a una decina di anni fa, poi l’hanno vietata perché ritenuta troppo cruenta.

Riguardo al galletto – altro soggetto classico del fischietto – quello prodotto in Salento aveva spesso la coda adornata da vere piume di uccello. Ci racconta ancora Vito De Carlo: “I galli con le piume d’uccello vere, molto utilizzati ad esempio nella bottega dei Manco, erano molto comuni in Salento e si trovavano spesso anche nei mercatini. Le piume servivano per rendere più appariscenti e gradevoli i pezzi, ma anche per risparmiare tempo. Infatti fare la coda di creta e dipingerla richiede più lavoro che inserire le piume.”

Per quanto riguarda infine il fischietto a forma di tromba ritorta, Piangerelli e Sgrò[4] ipotizzano che si tratti della riproduzione in miniatura e a scopo ludico delle trombe utilizzate durante il lavoro agricolo; queste, sempre in terracotta, erano utilizzate nei campi per le segnalazioni. E sin da tempi remoti la trombetta era anche acquistata durante la fiera di San Rocco - che si tiene proprio nel paese di Ruffano - in segno di devozione verso il santo.

Certo è che dalle testimonianze degli artigiani non è possibile risalire all’origine di queste iconografie. Anche i Maestri più anziani riferiscono di avere appreso a modellare i fischietti in questo modo dai propri antenati, e di averli riprodotti fedelmente.
Vittorio Falcone: “Il cavallo lo abbiamo sempre fatto con tre zampe, 2 d’avanti e 1 di dietro. E poi facevamo il galletto con le piume dietro che sembrava un gallo ruspante.
Spesso questi fischietti li facevano i piccoli. Ne faceva uno il genitore e poi ti diceva: falli così. E ne devi fare 100, altrimenti non vai a dormire. E noi dovevamo completare quei 100 pezzi prima di smettere.”

Luigi Manco: “Il gallo lo abbiamo sempre fatto con o senza piume vere, anche all’epoca di mio Nonno”

I fischietti a stampo
Queste iconografie “arcaiche” dei fischietti salentini sono state perpetuate dai produttori fino ad oggi. Allo stesso tempo, nella seconda parte del XX secolo, si è assistito a una grande diversificazione delle forme, tanto che il Salento può essere considerato una delle aree con la maggiore ricchezza di iconografie di fischietti tradizionali.[5] Sempre la ricerca del MNATP[6] ha verificato che questa diversificazione dei soggetti avviene a partire dal secondo dopo guerra, e viene facilitata dal ricorso sempre più ampio alla tecnica dello stampo da parte di un certo numero di botteghe – comprese quelle di De Donatis e Manco.[7] Con l’uso degli stampi, la necessità vitale di contenere i tempi di esecuzione dei fischietti – che ovviamente dovevano avere un prezzo modesto – non era più di ostacolo all’introduzione di soggetti nuovi ma anche più accurati sia nella fattura che nella decorazione. Alcune botteghe iniziano dunque a produrre una gamma molto ampia di soggetti zoomorfi e soprattutto antropomorfi, come personaggi della vita di paese e delle campagne o militari in uniforme, tutti soggetti rappresentati spesso in chiave satirica.
Rispetto alla decorazione, il fischietto grezzo o ricoperto da una semplice smaltatura monocromatica viene sempre più spesso sostituito da pezzi decorati con una ampia gamma di vivaci colori a freddo. Gli artigiani si sforzano di utilizzare questi colori per evidenziare particolari dei vestiti o delle espressioni del volto, fino ad acquisire abilità proprie dei figurinai-decoratori.
Ad esempio la bottega Manco, che in precedenza aveva prodotto i soggetti dei fischietti più classici ricoprendoli con una smaltatura nera, bianca o marrone,[8] coglie in pieno le nuove opportunità offerte dalla tecnica dello stampo, ed inizia a realizzare un grande numero di soggetti di grande raffinatezza formale.

Luigi Manco: “Facevamo molti soggetti. Gran parte dei modelli che faccio tutt’ora e che vedete qui sono modelli antichi: i cavalli, i carabinieri, i corazzieri, e gli altri soldati; le donne con l’ombrellino, le calandre di diverso tipo, i galli, il gobbo, eccetera. Lavoriamo con la fantasia: troviamo sempre soggetti nuovi e poi li realizziamo come ci viene in testa.

Per poter fare più veloce si fa una forma di gesso: così con lo stesso tempo a disposizione, invece che 10 fischietti se ne fanno 50. Fai un originale e poi ricavi lo stampo versandoci sopra il gesso. Poi si mette la creta nello stampo, si uniscono le due metà, si preme un pochettino ed esce la sagomina.
Le mani si usano comunque: ad esempio in questo fischietto l’ombrellino, la borsetta e le mani sono aggiunte dopo aver usato lo stampo. E al carabiniere si aggiunge a mano un braccio – per fargli fare il saluto - e i piedi. E naturalmente si aggiunge il fischietto dietro e si decorano tutti a mano.
Questi stampi puoi utilizzarli per quanti anni vuoi. Ho ancora quelli di mio Padre e mio Nonno.”

Bisogna sottolineare che la tecnica dello stampo non ha sostituito in Salento il fischietto modellato a mano: al contrario, nei decenni seguiti al secondo dopo guerra e fino al giorno d’oggi convivono entrambe le tipologie di fischietto, e di solito lo stesso artigiano utilizza entrambe le tecniche. Infatti, se le botteghe Manco e Falcone si sono specializzate prevalentemente nella realizzazione di fischietti a stampo, quelle dei Toma e De Donatis li realizzano quasi interamente a mano. D’altronde sono molte e significative le eccezioni: Alessandro Manco realizzava a mano degli splendidi pezzi unici; i famosi cavalli a 3 zampe di Errico Falcone (non i cavalieri) sono realizzati a mano; Luigi Toma utilizzava spesso degli stampini per i visi dei personaggi antropomorfi, ed ha anche realizzato alcuni carabinieri con retro piatto ricavati chiaramente da uno stampo; [9] per quanto riguarda infine i De Donatis, Mario Giani, visitando nel 1995 la loro bottega, nota la presenza di fischietti fatti da stampi anche risalenti all’inizio del secolo, come un soldato in uniforme ottocentesca. [10]

Le “dinastie” di figuli del Salento
De Donatis, Falcone, Manco, Toma sono tutte famiglie di produttori figuli di antica tradizione. In alcuni casi questo è confermato anche da ricerche realizzate a partire dagli archivi anagrafici.[11] In ogni caso è la memoria orale degli ultimi discendenti di queste famiglie a raccontare di generazioni e generazioni di artigiani impegnati nella lavorazione della terracotta. Di solito gli artigiani intervistati non sono in grado di ricordare un antenato appartenente alla loro linea di discendenza diretta che facesse un mestiere diverso dal loro. E tutti i membri maschi – e non di rado anche le femmine – di queste famiglie, spesso molto numerose, erano dediti alla bottega di famiglia.

Salvino De Donatis: “Qualcuno ha fatto delle ricerche ed è risalito - con documenti alla mano - fino al 1650. Sin da allora a Cutrofiano i De Donato erano artigiani figuli. La “s” finale del cognome si è poi aggiunta nel tempo. Comunque da quello che mi raccontava mio Padre, e da quanto ricordo io stesso, tutti i nostri antenati, a cominciare da mio Nonno e dal mio Bisnonno, lavoravano la terracotta.

Tra i 7 figli di mio Nonno i maschi lavoravano tutti al tornio, mentre le femminucce erano più addette ad altre cose, come la preparazione dell’argilla.
Questo non vuol dire che le donne lavorassero di meno. Ad esempio, in famiglia si racconta sempre di questa Zia particolarmente attaccata al lavoro, praticamente non smetteva mai. Oggi, a 83 anni, ha un fisico asciutto come il mio, ed ancora bada all’intera famiglia. E questi artigiani di un tempo sono anche persone cariche di ironia, molto ironiche ed autoironiche
.”

Luigi Manco: “Il Padre di mio Padre, che si chiamava Lucio, faceva questo mestiere. E così ancora suo Padre, che si chiamava Giuseppe. Poi è venuto mio Padre, che era del 1903, e quando aveva 15 anni già aveva il laboratorio. Quindi io e i miei fratelli siamo della quarta discendenza.

Eravamo 6 figli, tre maschi e tre femmine. Noi 3 maschi abbiamo preso il mestiere di mio Padre, mentre delle tre femmine una faceva la tessitrice al telaio, un’altra faceva la ricamatrice e cuciva vestiti e l’ultima faceva il ricamo. Eravamo tutti artigiani insomma.

Io e i 2 fratelli maschi - Alessandro e Antonio - abbiamo continuato tutta la vita a lavorare la terracotta. Quest’ultimo, che era il più grande di tutti, se ne andò in Svizzera nel ’57 - perché qui, si moriva di fame. Ma partì con la speranza che quando tornava si metteva su un suo laboratorio. Mi diceva sempre: quando torno lavori per me. Poi è successa una sventura, ha avuto un incidente sul lavoro. Faceva il pittore, è caduto da 4 metri di altezza ed è morto. Aveva 46 anni, ha lasciato una moglie con due figli ed incinta dell’ultimo, che non ha mai conosciuto il Padre.”

Vittorio Falcone: “I Falcone hanno una tradizione antica nel fare questo mestiere, non so nemmeno io da quando. Sicuramente mi ricordo di mio Nonno ed anche di mio Padre.
La mia generazione eravamo 5 fratelli e tutti lavoravamo la terracotta. Di femminucce non ce n’erano.
Mio fratello Errico era il più famoso di noi per i fischietti, ma lavoravamo insieme e ci scambiavamo sempre i ruoli
.”

Luigi Toma: “Anche mio Papà e mio Nonno facevano questo mestiere.” E senz’altro anche il fratello di Luigi – Armando Toma - almeno in gioventù ha imparato il mestiere dal Padre, tanto è vero che dopo un periodo di interruzione è tornato a produrre dei fischietti particolarmente apprezzati dagli appassionati.

L’apprendistato in bottega
L’apprendistato dei Maestri figuli di Ruffano e Cutrofiano è stato analogo a quello di tanti artigiani del secolo scorso. Già dall’infanzia si cominciava a frequentare la bottega per imparare il mestiere e ben presto si era costretti a lasciare la scuola dedicandosi a tempo pieno al mestiere della terracotta.

Vittorio Falcone: “Sono entrato in bottega dopo la classe V elementare. Allora si usava così, anche se eri un bambino lavoravi come un operaio. Non potevi dire di no, altrimenti in famiglia non si mangiava.
A me il mestiere lo ha insegnato Antonio Falcone, mio papà; lui ha lavorato fino ad 82 anni ed ha fatto sempre fischietti, perché allora si vendevano
. “

Luigi Manco: “Ho iniziato a 7 anni, che ancora facevo le elementari. Mio Padre mi diceva: “quando esci dalla scuola vieni direttamente al laboratorio e cominci a fare qualcosa.” Ed effettivamente io e i fratelli quando uscivamo dalla scuola frequentavamo il laboratorio per imparare il mestiere. E praticamente ci siamo imparati. Poi sai, ti incominci ad appassionare e non vuoi più fare altro. Infatti ho fatto anche altre cose, ma a me mi piace fare solo questo. A volte mio Padre mi mandava a fare altri mestieri ma io protestavo: “Papà non mi piace!” “E che cosa vuoi fare?” chiedeva lui. “Qui voglio lavorare, qui voglio imparare!”.

Rivelatore è poi il racconto di Salvino De Donatis, che ci spiega come in realtà non sia possibile stabilire una età in cui cominciò ad affiancare il padre Vito nel lavoro, semplicemente perché la dimensione familiare era così strettamente legata a quella lavorativa da rendere le due cose inscindibili. Casa e bottega erano in fondo la stessa cosa e per quanto indietro possa andare la sua memoria, Salvino ricorda di avere avuto in qualche modo sempre a che fare con l’argilla e con l’attività produttiva.
Salvino De Donatis: “Da bambino ho iniziato a lavorare subito, anche perchè per noi il laboratorio e la casa non erano cose separate, erano tutto un agglomerato, diciamo. Avevamo la cucina e in quello stesso ambiente - un po’ staccato dal camino - c’era il tornio. D’inverno mia Madre scaldava l’acqua che serviva a mio Padre per lavorare e gliela portava. Poi preparava da mangiare mentre lui lavorava e magari gli diceva: assaggia le pittule, che sono calde. E lui si puliva un po’ le dita dall’argilla per mangiare. Son cose che a me sono rimaste impresse.
Ed io da ragazzino vivevo circondato dall’argilla ovunque. E da quanto mi ricordo ero proprio piccolo ma ero già impastato di quell’argilla. Credo che quando sono nato, che all’epoca si partoriva in casa, mia Madre mi avrà preso con le mani sporche di argilla. E infatti guarda caso io continuo: la nostra casa è qui, sopra al laboratorio: questo rapporto tra famiglia e lavoro non si è mai interrotto!”

Le antiche botteghe e la loro produzione
I laboratori tradizionali di Ruffano e Cutrofiano sono stati quasi interamente smantellati, e infatti nessuno dei Maestri intervistati lavora ancora nell’antica bottega di famiglia. Come testimonianza rimane qualche vecchia foto e magari qualche oggetto salvato a ricordo della bottega nella quale questi artigiani hanno passato buona parte della loro vita.
Chiediamo a questi Maestri di descriverci come erano fatte le loro botteghe e che tipo di produzione realizzavano – oltre ovviamente ai fischietti.

Salvino De Donatis: “Qui in paese non è rimasto niente di botteghe antiche, se non quella di un Colì che ha ancora il forno a legna. Non è in uso, chiaramente, però ancora la conservano per il suo valore storico. E’ l’unica che abbiamo a Cutrofiano.
D’altronde le botteghe di quando lavoravano i nostri nonni erano piccoline. Non erano adeguate al lavoro che si fa oggi, quindi sono state demolite, purtroppo.
E’ stato così per la bottega della mia famiglia, che era in questo stesso posto dove lavoro adesso, ma tanti anni fa era costituita da tre stanzette molto piccole.

Nella nostra bottega si facevano stoviglierie di uso domestico, come pentole e pignatte. Una produzione caratteristica era ad esempio il cofano, che serviva a fare il bucato. Era composto da tre pezzi: questo cofano - che era il recipiente più grande - poi c'era un vaso più piccolo, chiamato linbu - che serviva a far uscire l'acqua - e poi c'era il vacaturu - un recipiente tipo brocca che serviva a prendere l'acqua e a versarla dentro al cofano.
I torni chiaramente all’epoca erano tutti azionati col piede, non erano elettrici. Uno ancora ce l’ho, era di mio Padre.

Le stoviglie venivano smaltate appena, perchè allora se ne usava pochissimo di smalto. Non erano pezzi belli rifiniti come adesso, si metteva questo strato di smalto così sottile che quasi non si attaccava, e finiva per essere caratteristico dell'oggetto.

All'epoca, mio Nonno realizzava anche le tegole in terracotta per i tetti delle case. E mi raccontava mio Padre che c'erano giorni in cui occupavano tutta la zona circostante alla bottega con queste tegole stese ad asciugare. Poi magari veniva un temporale, e tutti i fratelli dovevano riportarle di corsa al coperto prima che la pioggia le rovinasse.

Si facevano anche tantissimi oggetti piccoli. Oltre ai fischietti, anche le campanelle, i salvadanai, le miniature. Le miniature erano una riproduzione in scala ridotta di tutti gli oggetti che servivano in casa all'epoca e che diventavano giocattolo per i bambini. Si facevano oggettivi non più grandi di 2 centimetri. Io continuo a portare avanti questa tradizione della miniatura.”

Luigi Manco: “La nostra bottega con la fornace a legna era in fondo a via Santa Maria di Leuca, dove ora ci sono le case popolari. L’abbiamo lasciata negli anni ’90, quando il Comune si è impossessato di tutto il terreno e l’ha buttata a terra.
C’erano tre stanze. Nella prima modellavamo, la seconda era per mettere i pezzi ad asciugare, e nella terza dormivamo, così poi alla mattina ti alzavi e ti mettevi subito al lavoro. A fianco a dove dormivamo c’era anche la fornace.
La nostra vita è stata un po’ sacrificata, però dico la verità: per me è stata una soddisfazione.

In questa bottega facevamo tutto, sempre con il tornio: tegami, piatti, coppe, bugie rotonde con sopra il manico – che erano come i cestini che si usavano una volta. E anche lo scaldino in cui si metteva il fuoco dentro e si teneva sulle gambe per riscaldarsi.
Quello è il tornio a pedale di quando era ragazzino mio Padre. Con il suo tornio e il mio lavoravamo uno di fronte all’altro. Me lo hanno chiesto ma non lo dò a nessuno, quando lo vorrò dare via lo porterò al museo.”

La preparazione dell’argilla
I Maestri continuano il loro racconto, descrivendo le varie fasi della lavorazione della terracotta, cominciando dalla preparazione della materia prima.
I banchi di argilla erano abbondanti sia a Cutrofiano che a Ruffano, ed ovviamente nelle botteghe del Salento - e fino ad anni piuttosto recenti - erano gli artigiani stessi ad occuparsi della preparazione della creta e nella maggior parte dei casi anche della sua estrazione .
Tutti i maestri intervistati sottolineano che si trattava di un lavoro faticoso, e che costituiva una parte non indifferente del lavoro della bottega.

Salvino De Donatis: “Qui a Cutrofiano ce n’è parecchia di argilla e per la lavorazione si utilizzava quella del posto.
Per quanto riguarda l’argilla bianca, quando si scavavano i pozzi per l’acqua ne usciva molta. C’erano diversi operai specializzati nel realizzare proprio questi pozzi e ogni artigiano prenotava presso di loro l’argilla. L’artigiano poi andava con un cavallo e un carretto, la pigliava e se la portava alla bottega.
Se invece l’artigiano aveva bisogno dell’argilla rossa, chiedeva il consenso per poterla cavare al proprietario di un terreno dove si trovava questa argilla. Si toglieva la parte superficiale e poi si cavava l’argilla buona.
Poi bisognava fare tutto il processo di preparazione. La terra veniva essiccata, poi messa a bagno, poi impastata con i piedi, in fine raffinata con le mani. L’argilla umida veniva impastata con quella che noi chiamiamo la farina, cioè l’argilla secca passata al setaccio. Così con i piedi e con le mani si impastava quella morbida mischiata con un po’ di argilla in polvere. E veniva fuori l’impasto per fare gli oggetti.

Ricordo che in estate essiccare l’argilla era più facile, ma quando era primavera bisognava stare attenti. Andava messa al sole però stando sempre attenti a non farla bagnare dalla pioggia. L’argilla quando è asciutta assorbe subito l’acqua, e quindi diventa una poltiglia. A quel punto anche se la fai essiccare nuovamente è inservibile, perché rimanegono delle parti più dure. Quella callosità, la cadda diciamo noi, era un problema per l’artigiano, perché non si riusciva a lavorare. E quindi se pioveva era la rovina, comprometteva ore di lavoro.
Di conseguenza si stava molto attenti al tempo e in caso di pericolo bisognava rientrare la creta nella bottega. Ragione per cui la creta in fase di essiccazione la trattavamo proprio come fosse un oggetto finito, si aveva la stessa cura
.”

Vittorio Falcone: “La creta si andava a cavare in campagna. Qui a Ruffano c’è la qualità rossa, quella da cucina, mentre quella bianca veniva da Montemesola in provincia di Taranto.

Preparare la creta era un lavoro faticoso, perché era sporca e bisognava togliere tutto il materiale cattivo. Dovevi togliere tutte le pietruzze, altrimenti durante la cottura il calore le faceva diventare calce e la pietra saltava lasciando il buco nel pezzo. Adesso si passa tutta al setaccio con le macchine e non c’è più pericolo.
Poi bisognava impastarla prima con i piedi, e poi a mano - come le donne fanno i maccheroni.”

Luigi Manco: “Con quella rossa si fanno le pentole, le pignatte per poter cucinare. Invece con quella bianca non puoi cucinare, è semplicemente per fare dei lavori più fini. I fischietti si possono fare con terra bianca e rossa, quella che avanza.

Quella rossa andavamo noi a prenderla. Dovevamo togliere prima uno strato di terra che poteva essere a seconda di mezzo metro, un metro, un metro e mezzo. Una volta tolto questo strato poi sotto c’era la terra buona.
Con la zappetta la tagliavi, la mettevi al sole, la facevi asciugare tutta. Poi si portava al laboratorio e la mettevi in un angolo, e come ti serviva la prendevi.
Si doveva pestare fino a ridurre le zolle a pezzi piccoli come una nocciolina. La mettevi a bagno e poi la dovevi impastare con i piedi, perché prima non c’erano le impastatrici.
Era un lavoro duro perché con i piedi nudi nell’acqua faceva molto freddo. Purtroppo questo mestiere è bello perchè ti inventi tante cose e rimani soddisfatto, ma passi pure molti di sacrifici. Prima però, oggi hai tutto: tornio elettrico, forno a gas, impastatrici…”

Luigi Toma: “La terra la prendevo qui a Torre, fuori dal paese. Si doveva prima togliere la parte di sopra, per esempio si scavava un metro, perché quella sopra non vale.
Prendevo la terra, la mettevo a bagno e poi ci passavo sopra con i piedi. La mettevo qui, mi toglievo le scarpe e i calzettoni e impastavo con un movimento così, come una danza. E si mischiava la terra con la polvere di argilla finchè non si impastava bene. Non dovevi aggiungere molta acqua, perché altrimenti serviva troppa polvere. Poi è uscita la macchina impastatrice e allora non abbiamo più usato le gambe
.”

La modellatura
Per quanto riguarda la modellatura dei manufatti, particolarmente significativa è la testimonianza di Luigi Manco, che ci racconta la fatica di una ordinaria giornata di lavoro in bottega: “Il giorno facevamo la roba grossa e la notte la roba piccola. Si lavorava così.
Dormivamo 3 o 4 ore al massimo, e poi ci alzavamo verso l’una-le due e facevamo i fischietti lavorando con il lume di petrolio o con la lanterna. Così dall’1 di notte fino alla mattina facevi già una giornata di lavoro, poi dalle 7 della mattina fino alla sera alle 5, alle 6 o anche alle 7 facevi un’altra giornata.
Alla sera, quando tornavamo dalla bottega, ci mettevamo tutti in famiglia e si mangiava. Perché allora si mangiava una volta al giorno solamente, la sera. Poi quando finivi di mangiare - alle 8 o alle 9 al massimo - ti andavi a coricare.
Insomma facevi 18-19 ore di lavoro. Oggi chi lo fa? Oggi un giovane non ha quella pazienza, quell’amore. Perché devi essere appassionato per fare questo lavoro
.”

Sempre Luigi ci sorprende spiegandoci di come, a volte, nelle botteghe degli anziani artigiani resistano sino ai giorni nostri tecniche di lavorazione considerate scomparse ed obsolete: “Abbiamo sempre usato il tornio a pedale, non abbiamo voluto modernizzarci prendendo un tornio elettrico. Siamo all’antica. Ogni tanto qualcuno veniva nel laboratorio e rimaneva stupito nel vederci lavorare con il tornio a pedale. Dicevano: ma come fate? Eppure io mi trovo meglio così.”

La cottura nel forno a legna
Alla modellatura seguiva ovviamente la cottura dei pezzi, eseguita rigorosamente nelle fornaci a legna.

Salvino De Donatis: “Noi di fornaci a legna ne avevamo 3, che alternavamo a seconda del materiale da cuocere: quanto più grandi erano gli oggetti più era grande il forno, proprio per una questione di convenienza.
Una fornace era grandissima, una casa insomma. Tanto che io quando ero troppo piccolo avevo paura addirittura a entrarci, perché pensavo di cadere dentro ai fori del solaio che divideva la camera di cottura dalla una camera di combustione. Questo forno più grande mio Padre lo ha usato fino agli anni ’60 o giù di lì.
Poi, quando sono cresciuto, nella maggior parte dei casi si usava quello medio. Anche questo era comunque un forno abbastanza grande: avevi bisogno di 100 fascine per portarlo a temperatura.
E poi c’era quello più piccolino che si usava per gli oggetti piccoli. Non era proprio piccolissimo, intendiamoci! Sarà stato di 2 metri cubi, mentre quello grande era di 4 e quello medio di 3 metri cubi.

Ricordo che il forno si accendeva la sera: si cominciava - per dire - alle 8 o alle 9 di sera, una volta finito di infornare. E si continuava fino alla mattina alle 7 o alle 8. Bisognava accenderlo gradatamente per fare salire la temperatura pian piano.

Abbiamo continuato a usare fino agli anni ‘70 i forni a legna più piccoli, fino a che non abbiamo preso il forno a gas nel ‘75. Per i primi anni si usavano entrambi, sia quello a gas sia a legna. Poi negli anni ’80 abbiamo smesso definitivamente e li abbiamo demoliti, anche perché i vicini iniziavano a lamentarsi del fumo. Prima qui era campagna, poi sono cominciate le costruzioni ed abbiamo dovuto smettere di bruciare la legna.”

Vittorio Falcone: “I pezzi li mettevamo nel forno a legna, e li cocevamo a 800 gradi di caloria. Se li facevi smaltati dovevi rimetterli al forno a 1.200 gradi di caloria.
Per la verità prima era davvero a legna, nel senso che per alimentare il forno c’erano le fascine soltanto. Poi abbiamo iniziato a usare la sansa di olive, che costa meno ed ha meno ingombro.”

Ancora una volta Luigi Manco rappresenta un singolare esempio di sopravvivenza di tecniche di produzione tradizionali. Il Maestro utilizza ancora oggi la cottura a legna: “Uso sempre il forno a legna. E’ più faticoso, ma ritorniamo al discorso di prima: io sono fatto così, non mi piace la roba meccanica, mi piace lavorare all’antica. Per la prima cottura si arriva sui 900 gradi, mentre per la seconda, con la roba tutta smaltata, si arriva sui 1.100, 1200, 1300.”

Cuocere i pezzi non richiedeva minore maestria che modellarli. Non poteva infatti essere lasciata al caso né la disposizione degli oggetti nel forno – che andavano impilati in un certo modo per guadagnare spazio ed evitare che i pezzi si rovinassero – né la scelta dei tempi con i quali aumentare o diminuire la temperatura.

Luigi Toma: “I pezzi li dovevi mettere nel forno uno sopra l’altro in un certo modo. Ad esempio la parte rotonda doveva andare con parte rotonda e il becco con il becco.
Con il forno a legna dovevi stare attento a capire quando smettere di buttare la legna. Se non ti regolavi bene con la temperatura il collo di qualcuna delle pentole che stavano sotto si schiacciava. E i vasi fatti in quel modo non li volevano neanche regalati!
Nel forno avevamo una piccola buca così per vedere dentro. E allora ti regolavi: nella prima cottura se la creta era proprio rossa significava che dovevi smettere di alimentare il fuoco. Oppure decidevi: butto la legna ancora tre o quattro volte.
Per la seconda cottura, quando vedevamo che le pentole si lucidavano poco poco, allora subito si doveva alimentare più piano.”

Anche nel raccontare della fase della cottura, i Maestri figuli salentini confermano che non sempre i fischietti rappresentavano una produzione marginale. Se a volte questi piccoli manufatti riempivano gli spazi lasciati liberi da oggetti più grandi, altre volte veniva cotto un forno appositamente per questi piccoli oggetti.

Salvino De Donatis: “I fischietti e gli altri oggetti piccoli li mettevamo in questi spazi che rimanevano tra un vaso e l’altro nell’infornata.
Però se ad esempio arrivava una fiera e mio Padre aveva bisogno di un centinaio di fischietti, era capace di farli tutti in una giornata – era molto veloce a fare queste cose – e riempirci un fornettino. Il fornettino lo costruiva lui stesso con dei mattoni che preparava quando aveva tempo e che teneva sempre a disposizione. E poi per cuocere ci volevano 4-5 ore
.”

Luigi Toma: “Quando preparavamo i fischietti per il fuoco ne mettevano 5-600, e li sistemavamo uno sopra l’altro.”

La decorazione dei fischietti
Dopo la cottura, i fischietti salentini erano spesso lasciati grezzi, oppure decorati - a freddo o con lo smalto - in maniera piuttosto essenziale. Venivano utilizzati materiali poveri - come calce e vernice per l’edilizia, o avanzi di smalto - e di solito ci si limitava a ricoprire i pezzi con un unico colore, magari sottolineando qui e li qualche particolare con una vernice diversa.

Salvino De Donatis: “Per la colorazione, all'epoca c'era la calce che faceva da base, e poi si applicavano i colori che servivano anche ai pittori per dipingere le case. Di smalti se ne usavano pochissimi per una questione di costi. Anzi, molti fischietti rimanevano grezzi sempre per una questione di costi. All'epoca si risparmiava su tutto, anche sui colori.”

Vittorio Falcone: “I fischietti si pitturavano con semplice pittura da muro. Usavi prima il bianco e poi sul bianco mettevi i colori che volevi.”

Più elaborata era la colorazione dei fischietti della bottega Manco. Come abbiamo detto, Serafino e i suoi figli erano stati tra i primi ad andare oltre il fischietto salentino più arcaico ed essenziale, specializzandosi nella realizzazione di figure a stampo piuttosto raffinate anche nella colorazione. Per questi pezzi si utilizzava una gamma di colori ampia per sottolineare i particolari del viso, dei vestiti, del pelo degli animali, e così via.
Luigi Manco: “All’epoca i colori li compravamo in polvere, e dovevamo andare a prenderli a Maglie. Per preparare il colore dovevi aggiungere a queste polveri un po’ di colla del falegname, che serviva come fissante, così non andava via il colore.
La colla una volta era solida, la dovevi pestare e sciogliere col caldo e ne mettevi un po’ nel colore. Aggiungevi alla polvere un po’ di acqua e colla e poi impastavi bene bene. E dovevi tenere questi colori sempre sul fuoco, perché quando la colla inizia a raffreddare allora poi i colori non puoi usarli più. Così dovevi tenere un tegame sopra al braciere, con l’acqua calda e i bicchieri dei colori dentro a bagnomaria. E li dovevi tenere sempre al caldo in modo che rimanevano sciolti.
Poi c’era anche il trasparente, quello lucido. Ne mettevi un poco sopra e il pezzo diventava lucido. Si usava a seconda del colore: se era chiaro non mettevi il trasparente, ma per esempio sul nero, o su un rosso scuro, se ne metteva un po’ e veniva una cosa più bella
.”

Le fiere paesane e lo smercio dei prodotti
Le principali occasione per smerciare fischietti ed altri prodotti erano per gli artigiani le fiere di paese. Altre volte si utilizzava il porta a porta, magari barattando la merce con prodotti alimentari. Normalmente era la famiglia dell’artigiano a occuparsi della vendita, senza l’utilizzo di intermediari.

Luigi Manco: “Eravamo molti artigiani di Cutrofiano, Lucugnano, Torre, che partecipavamo alle fiere. A noi è capitato di arrivare fino ad Avetrana o Taranto. Allora si andava con il traino: partivi alle 4 della sera e arrivavi alla mattina alle 6.

Non si guadagnava tanto. Delle volte andavi ai mercati e non vendevi tutta la merce. E allora per finirla dovevi girare per le case private a smerciare la rimanenza. Per una pentola ti davano in cambio per esempio un litro d’olio o un chilo di pane. Questo tipo di scambi si faceva allora, parlo del 1946-47.
Il traino non era nostro, veniva in affitto, e dopo la fiera lo mandavi via. E tu per finire la merce te la facevi a piedi o al massimo con qualche bus, quando c’era. Praticamente io una volta l’ho fatta a piedi da Nardò a qui. Anche da Santa Cesaria Terme a qui – che sono 38 km - l’abbiamo fatta a piedi. Quando arrivavi a casa eri sfinito.

Purtroppo quella era la vita che si doveva fare allora! Ma grazie a Dio siamo ancora qui. Anche mio Padre è sopravvissuto 88 anni lavorando sino all’ultimo, eppure ne ha fatta di strada a piedi! E dormivamo a terra, eh! Magari mettevamo sotto un sacco pieno di paglia.
Poi piano piano abbiamo iniziato a prenderci le comodità: la macchina per esempio. Purtroppo è stata una vita un po’ dura per noi. Comunque sono dei bei ricordi!”

Salvino De Donatis: “Quelle che facevano mio Nonno e mio Bisnonno sono le fiere che io continuo a fare anche oggi. Sono la Madonna della Luce a Galatina, la Madonna Addolorata a Maglie, San Giuseppe a Nardò. Poi c’è Ugento e una fiera specifica proprio per gli oggetti in terracotta a Taviano, chiamata la Tappedda. Poi c'era Sant'Irene a Lecce.

Quando ero piccolo ed ho cominciato a girare per le fiere, già si usava il camioncino, ma mi hanno raccontato molto dei viaggi fatti con il carretto. Succedeva qualche volta che il cavallo era stanco e non riusciva ad arrivare alla fiera; magari si buttava per terra e non voleva proseguire. O magari il carretto cadeva e riportava dei danni. E allora solo a fatica e con alcune ore di ritardo si riusciva a raggiungere il paese, quando tutti erano già là. Storie così, che raccontate adesso magari sembrano delle sciocchezze, ma bisogna considerare quanti sacrifici erano stati fatti all'epoca per produrre i pezzi e poterli vendere in quella fiera.
Poi i miei Zii mi raccontavano di certi stratagemmi che si usavano per fare andare più forte il cavallo, come con il peperoncino messo lì al cavallo… non so quanto fosse un fatto vero e quanto me lo dicessero per farmi ridere
.”

Vittorio Falcone: “La mia famiglia faceva le fiere di San Rocco, di San Marco qui a Ruffano, e della Madonna Addolorata a Maglie.
Da bambino io ci andavo, e noi figli vendevamo i fischietti per contro nostro, nel senso che gli incassi erano nostri. Praticamente era un modo con cui i genitori ci invogliavano a lavorare. Allora un fischietto piccolo poteva costare 50 lire, 100 quelli più belli.

Più di recente in una fiera esposi i miei fischietti con il cartellino del prezzo che era di 5.000 lire. Il signore del banco vicino al mio era incredulo: ma a quanto li venti questi fischietti? 5.000 lire? Ma come è possibile? Io li ho pagati 5.200 all’ingrosso!
In effetti erano proprio fischietti miei. Li avevo venduti a Colì di Cutrofiano a 3.500 lire l’uno e loro li avevano rivenduti a questo commerciante con un sovrapprezzo. In conclusione non ci fu modo di fare affari per questa persona, dovette chiudere bottega!”

Luigi Toma: “Andavo a 15 o 20 fiere in tutto l’anno, altrimenti non riuscivo a lavorare. Anche perché lavoravo per conto mio e dovevo fare tutte le cose da solo.”

Il futuro delle botteghe artigiane
Buona parte dei Maestri salentini sono oggi in pensione. Per loro la prospettiva è purtroppo quella di non avere eredi in grado di proseguire l’attività di famiglia.

Vittorio Falcone: “Ora siamo rimasti in 3 fratelli. E tutti e 3 siamo già in pensione. Con i nostri figli niente, la terracotta sparisce.
Anche i fischietti li abbiamo fatti fino a 6-7 anni fa, ma man mano che finiscono non se ne facciamo più.
Anche volendo non ha più senso: 15 anni fa i fischietti li vendevi a 5 euro, adesso si vendono a 2 euro e mezzo!


Luigi Toma: “Quando ho smesso io di lavorare è finito tutto. Ho una figlia che vive con me e un’altra a Ruffano, ma sono femminucce e non lavorano la terracotta.”

Fa fortunatamente eccezione la famiglia De Donatis, nella quale Salvino - che è oggi un uomo di mezza età - ha degnamente preso il posto del padre Vito nella conduzione dell’attività di famiglia. E già dopo di lui si affaccia una nuova generazione che sembra possedere per il mestiere della terracotta la stessa passione di quelle che l’hanno preceduta.

Vito De Donatis: “Mia figlia Claudia ormai è proprio del mestiere. Lavora da sempre insieme a me, io dico che è l’erede di mio Padre. Invece la Paola va all’Università: ieri ha dato un esame però come vedi è già qui in bottega che ci dà una mano.
Io sono contento che continuino questo lavoro. Gli dico sempre: se trovate di meglio fate pure un altro mestiere, però dovete trovare di meglio! A parità di condizioni conviene fare questo lavoro, che è molto creativo, lascia molti spazi, molta libertà. Dal punto di vista economico non so se convenga, ma qualche soddisfazione morale te la dà
.”



NOTE
[1] Paola Piangerelli e Francesca Sgrò, “Puglia” ,in Paola Piangerelli (cur.), La Terra, il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a MNATP, Edizioni De Luca 1995.
[2] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[3] Interessante è l’analogia con il cavallo a tre gambe di Pignataro di Broccostella, in Provincia di Frosinone. In questo caso si tratterebbe di una rappresentazione fallica: nella prospettiva frontale del fischietto la gamba di dietro può sembrare un lungo fallo. Ne è prova il fatto che questo fischietto venisse donato alle giovani spose come augurio di fertilità.
[4] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[5] Ci riferiamo comunque a fischietti prodotti da botteghe e artigiani tradizionali. Si prescinde quindi dalle produzioni più recenti, sia quelle di tipo più prettamente commerciale che quelle artistiche.
[6] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[7] Si trattava di una tecnica non particolarmente complessa, ma comunque estranea alla tradizione produttiva dei vasai salentini, da sempre abituati ad utilizzare il tornio e la modellazione a mano libera. I primi costruttori di fischietti a introdurre questa tecnica dovettero rivolgersi molto probabilmente alle botteghe dei figurinai, specializzati nell’utilizzo di stampi per la realizzazione di santi e figure da presepe.
[8] P. Piangerelli e F. Sgrò, op. cit.
[9] Questi carabinieri - presenti ad esempio nella collezione Lo Bosco - hanno una notevole somiglianza con quelli dei Manco, tanto da far supporre che lo stampo sia stato ricavato proprio da un fischietto di questi ultimi.
[10] Questo ceramista di grande raffinatezza noto anche come Clizia, lo scrive nel libricino ciclostilato e distribuito in un numero limitato di copie “Tre Uomini in Tenda, scorribanda appulo lucana nel mondo dei fischietti”, Anemos, 1995. Sempre in questo libricino, Clizia nota anche come Alessandro Manco in alcuni casi utilizzi ancora gli stessi stampi del Padre e del Nonno.
[11] Si veda ad esempio l’articolo di Alfredo Ligori “Vito De Donatis, artigiano e artista cutrofianese”, in Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n° 4/5, Ed. Congedo, Galatina, 2.000



FOTO


1. Fischietti tradizionali di Luigi Toma: uccello, cavallo a tre zampe, tromba, carabiniere, pupa, cane


2. Vito e Salvino De Donatis (foto Lo Bosco)


3. Fischietti di Luigi Manco: calandra, gallo con piume vere, personaggio con testa semovente (foto Croce)


4. Luigi Manco nel suo laboratorio


5. Fischietti di Errico Falcone (coll. Lo Bosco)


6. Luigi Toma al tornio (foto Lo Bosco)


7. Vittorio Falcone


8. Fischietti di Luigi Toma decorati (coll. Lo Bosco)


9. Fischietti di Severino Manco


10. I fretelli Falcone al tornio in una foto d'epoca


11. Fischietti di Severino Manco (coll. Garzia)


12. Sculture a tema religioso (senza fischietto) di Vito De Donatis (coll. Lo Bosco)


Galli di Armando Toma (coll. Lo Bosco)


I testi sono di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata


Segue II parte

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