Pagine

venerdì 25 maggio 2012


Memorie e Suoni di Terra - conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore
I Mastro di Grottaglie – orgogliosamente “fischiettari”
Giovanni Mastro (foto Fam. Mastro) 
Per alcune famiglie la ceramica diventa una ragione di vita, quasi come se generazione dopo generazione il padre trasmettesse ai figli il legame con la terracotta insieme al corredo genetico. Ed è questo il caso della famiglia Mastro.

Per provare a spiegare la forza di questo legame bisogna anzitutto dire che sono ormai 4 le generazioni dei Mastro che hanno dedicato la loro vita all’argilla. E c’entra molto anche Grottaglie – città dove hanno vissuto e lavorato almeno dalla metà dell’800 – e che è in tutto il mondo sinonimo di ceramica.
Eppure tutto questo appare ancora riduttivo finchè non si parla con con Oronzo e Marcello Mastro – la quarta generazione di ceramisti della famiglia. Solo sentendoli raccontare del proprio lavoro o della storia della bottega di famiglia ci si rende conto dell’amore profondo che li lega alla professione imparata fin da bambini dal proprio padre, o della devozione con cui hanno conservato storie e cimeli di famiglia.

Questo non vuol dire che il rapporto tra i Mastro e la terracotta sia stato fatto solo di soddisfazioni e successi. Molti sono stati i momenti difficili, ma paradossalmente le avversità sembrano avere solo rafforzato la passione dei Mastro per il loro mestiere. Tanto che se si potessero riassumere due secoli di storia famigliare in una sola parola questa sarebbe “caparbietà”: la caparbietà con cui ieri come oggi hanno portato avanti la loro professione di fronte a tante difficoltà; e anche la caparbietà – della quale gli appassionati di ceramica sonora devono essergli particolarmente grati – di aver salvaguardato la produzione dei fischietti anche nei decenni in cui a Grottaglie sembravano essere stati dimenticati da tutti.


Dai fischietti della tradizione a quelli artistici

E proprio dai fischietti comincia il racconto di Oronzo, il più grande dei fratelli Mastro, che ci racconta dei fischietti fatti dal Nonno – che si chiamava Oronzo come lui  - tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900.”
“Abbiamo ancora gli stampi che usava mio Nonno per i fischietti, stampi che erano fatti proprio da lui. I fischietti erano i giocattoli dei bambini, li facevano per quello.
fischietto Oronzo Mastro (foto G. Croce)
Per cuocerli si usava naturalmente la fornace a legna. La cottura era a costo zero perché ci si riempiva una capasa – i nostri contenitori rustici.  Di solito subivano una monocottura, e poi si dipingevano in maniera molto grossolana, non erano rifiniti come oggi. Prevalentemente erano colorati con la calce, e magari marmorizzati. Quindi li immergevano nella calce e poi gli schizzavano sopra un po’ di rosso e di blu. Abbiamo recuperato un gatto colorato in questo modo.”

 Molto legato alla produzione di fischietti fu anche Giovanni Mastro, figlio di Oronzo. Si trattò anzi dell’unico artigiano di Grottaglie a portare avanti questa tradizione nel periodo che va dal secondo dopo guerra, momento della decadenza dei fischietti come giocattoli tradizionali, fino alla loro riscoperta da parte dei collezionisti negli anni ‘80.
Oronzo Mastro: “Era l’unico a Grottaglie a fare i fischietti. Tanto è vero che durante una riunione di ceramisti Papà prese la parola per dire qualche cosa, e un suo collega ceramista lo tacitò dicendo: “citto – ovvero zitto -  fischiettaro!” Fu chiamato “fischiettaro“ proprio perché era l’unico a livello di botteghe ceramiche a fare questi fischietti.
Allora ci rimase amareggiato, dopo di che divennero tutti fischiettari! E questo grazie a Carella, che inventò la rassegna  di Ostuni.[1] E tutti si misero a fare fischietti. A un certo punto tutti i clienti cercavano fischietti, e c’è gente che ci si è fatta veramente i soldi. Ma facendo cose secondo me obbrobriose: facendo queste cose ridondanti, prive di gusto, hanno snaturato completamente i fischietti.

All’inizio comunque nessun altro sapeva fare bene i fischietti a Grottaglie, tranne la mia famiglia. Tanto è vero che fu mio zio ad insegnare materialmente a fare fischietti ai nostri concorrenti.
E per la verità fino al ’69-70 se ne facevano pochissimi nella bottega dei fratelli Mastro, erano proprio un prodotto di nicchia: pochissima roba e pochissimi soggetti.
Solo quando si sciolse la società con i fratelli e Papà si mise da solo, allora riprese in grande la produzione. Quando a settembre facevano la mostra della ceramica riusciva a vendere anche 1.000 fischietti in un mese,  proprio perché era l’unico a farli. Allora comunque avevano anche un costo irrisorio.”

Analogamente a buona parte dei fischietti pugliesi, si trattava di pezzi modellati a stampo e poi generalmente dipinti a freddo o lasciati grezzi. Anche i soggetti tradizionali non sono dissimili da quelli del Salento o del barese.
Oronzo Mastro: “Molti soggetti, come il carabiniere e il marinaio, servivano a sbeffeggiare il potere. Poi c’erano personaggi come il pulcinella, il gobbo, il pancione e vari animali come il gallo ed il maialino.
C’era anche un’ocarina - anche se non era un’ocarina che poteva dare molti suoni - e le trombe di San Pietro. Le facevano allora per San Pietro, il 29 giugno, e i ragazzini andavano in giro per Grottaglie a spernacchiare con questi fischietti.”

Paola Piangerelli visitò la bottega di Giovanni Mastro nell’ambito delle sue ricerche sui fischietti. Il resoconto di questa visita è particolarmente prezioso, perché ci offre una testimonianza dell’aspetto della bottega e delle tecniche di produzione dei fischietti nel lontano 1974. Si riporta tra le altre cose come Giovanni utilizzasse un bastoncino di legno da lui chiamato “mucculaturu” per modellare la parte fischiante, e di come oltre ai fischietti di formato “classico” (12-14 cm) producesse anche carabinieri di dimensioni più grandi (22 cm); da questi ultimi, che erano di fattura più accurata, risaltava tutta l’abilità esecutiva del maestro. Vi sono inoltre alcune notizie sulla commercializzazione dei fischietti, che avveniva tramite intermediari in occasione di alcune fiere legate a feste religiose, come San Cataldo e S. Francesco di Paola a Taranto, e per l’Ascenzione a Oria (Brindisi).[2]

Rispetto a quella che è probabilmente l’iconografia del fischietto più diffusa in assoluto – quella che raffigura il carabiniere – Oronzo Mastro ricorda un aneddoto curioso:
fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi)
“Tanti anni fa, durante la mostra della ceramica di Grottaglie, si presentò da mio Padre questo tizio e disse: “siete lei il signor Mastro?” E Papà rispose: “Si, sono io. Cè vuoi, Piccì?” E lui: “devo denunciarla per oltraggio all’Arma”. Era un grottagliese che aveva visto i fischietti con i carabinieri e si era scandalizzato. Si era anche comprato la prova del reato: arrivò in bottega con dei fischietti e inizio a dire: “Lei ha messo il fischietto in quel posto al carabiniere…”. E mio padre rispose: “Ascolta, se vai dai carabinieri, ne trovi uno anche sul tavolo del maresciallo. E poi ho messo il fischietto in culo ai balilla durante la guerra, per cui adesso non rompermi l’anima con queste sciocchezze!“  

Anche alcune donne della famiglia Mastro – come la moglie Giovanni, Maria Blasi - contribuivano alla produzione di fischietti. Lo testimonia ad esempio Mario Giani[3] – in arte Clizia – nel resoconto della sua visita del 1995 alla bottega Mastro. In quella occasione vi trovò delle casse piene dei  fischietti della Signora Mastro, raffiguranti in particolare la padrona ed il padrone.
Anche il collezionista ed esperto di fischietti Beppe Lo Bosco, esaminando i fischietti dell’epoca di Giovanni, ha notato che il modulo sonoro sembra essere stato foggiato da due mani diverse (trattandosi di pezzi fatti a stampo, il corpo principale dei fischietti è ovviamente indistinguibile).  E’ dunque possibile che si tratti dei fischietti di Giovanni e della sua Signora.

Oggi è Marcello Mastro a portare avanti la tradizione di famiglia nella produzione dei fischietti. In particolare sono due le tipologie di fischietti da lui realizzate: quelli tradizionali e le ceramiche fischianti artistiche.
I primi sono realizzati nel rispetto delle forme e delle tecniche di un tempo. Spesso per produrli si utilizzano gli stampi d’epoca di Giovanni Mastro:
Marcello Mastro: “Gli stampi di mio padre li ho usati tantissime volte e iniziano ad essere logori. Devo decidermi a rifarli perché si rischia che vadano perduti, e non mi va che questo accada!”

Poi vi sono dei fischietti di grande raffinatezza realizzati con la tecnica del graffito – che d’altronde caratterizza buona parte della produzione attuale della bottega Mastro. I soggetti sono spesso i medesimi della tradizione – come le figure zoomorfe -  ma rielaborati secondo un design e una sensibilità moderna.

Per la verità, negli ultimi decenni, Marcello ha limitato molto la produzione di fischietti. Dopo il boom degli anni ’80-90 il mercato dei fischietti a Grottaglie si è infatti molto inflazionato, e la qualità dei prodotti è scaduta. La scelta è stata dunque quella di non scendere sul terreno di una competizione un po’ troppo al ribasso.
Marcello Mastro: “Ho smesso di fare i fischietti quando hanno iniziato tutti a farne di pessima qualità. Ne faccio qualcuno ogni tanto, solo se me lo chiedono.”


La cocciuta conquista della bottega di famiglia

Fischietti a parte, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo i Mastro sono stati impegnati nello sforzo di conquistare e poi difendere la propria autonomia produttiva. Un’impresa non facile  se si pensa che Rosario Mastro, nato nel 1849 e trasferitosi a Grottaglie da Ceglie Messapica, era un umile operaio impiegato come aiutante in una delle tante botteghe di vasai. Dalla loro parte i Mastro avevano però un’abilità fuori dal comune – nomen omen recita il proverbio latino - e una notevole dose di cocciutaggine.
Oronzo Mastro: “Mio Bisnonno iniziò a lavorare in una bottega di ceramica, la Arces. Praticamente era un semplice manovale. In gergo si diceva “omo tà fori", uomo esterno inteso come addetto alle attività
collaterali. Ad esempio: prepare ed impastare la creta per i tornianti,
accudire gli oggetti già foggiati, ingobbiare, smaltare, cuocerei forni e così via.
I figli – perché aveva 3 figli questo Rosario - tutti e 3 divennero ceramisti. Uno  praticamente è arrivato al suo livello, gli altri 2, mio nonno Oronzo e il mio prozio Cosimo, lo superarono: erano due mostri di bravura.
Insegna della Bottega Mastro (foto G. Croce)

Fu Oronzo Mastro – primogenito di Rosario e vissuto dal 1875 al 1946 - a intraprendere questo percorso di emancipazione produttiva.  Oronzo si dimostrò ben presto un ceramista brillante e completo. Le botteghe di Grottaglie si contendevano le sue prestazioni di artigiano, ma la voglia di gestire un’attività in proprio rappresentò una costante della sua vita. Perseguì questo obiettivo con ostinata determinazione nonostante alcuni tentativi andati a vuoto.
Oronzo Mastro: “Nonno era bravissimo, di una bravura estrema sia nella modellatura che nel dipingere. Infatti durante gli anni ’20 vennero alcuni giornalisti a visitare la bottega e lo chiamarono il “mago dell’argilla.”

Ha sempre avuto questo pallino delle botteghe. L’ha aperta e poi chiusa tante volte perché era un grande maestro, ma un pessimo imprenditore. Però aveva sempre questa grande, grandissima determinazione di mettere su bottega.
Lei pensi che ebbe l’incarico di insegnante ad Avellino, ma dopo due anni si licenziò quando gli fu commissionato il rivestimento della cupola di Villa Castelli. Questo sempre per la passione che aveva sempre di mettere su bottega, e con 8 figli da mantenere ci voleva un gran coraggio!
Così nel ’23 - mi pare - se ne tornò da Avellino senza avere una bottega, e in locali di fortuna  ricominciò di nuovo.

Nei periodi in cui non poteva permettersi di avere una bottega sua andava a lavorare per gli altri. Ed era richiestissimo dagli altri ceramisti, perché era competente in tutto. Tra l’altro, quando arrivava nelle botteghe suscitava l’invidia dei vecchi operai, che dicevano: “a santo vecchio non si appicciano cannele” – ovvero al santo vecchio non si accendono più lumini, perché è arrivato un santo nuovo. Per tacitare appunto i colleghi invidiosi, uno dei suoi datori di lavoro, Calò, mise sul suo tornio, quello dove lavorava lui, un cartello con un proverbio che diceva “dove la stella brilla l’invidia strilla”. Però il suo pallino era sempre di mettere su bottega. E quando poteva ci provava.

Un’altra bottega la aprì nel quartiere della ceramica. Nessuno gli ha mai venduto un pezzo di terra  nel quartiere per potersela costruire. E allora fino al ‘43, fino all’arrivo degli americani, lui era in affitto presso la bottega Caretta. I proprietari, i Del Monaco, lavoravano a Sesto Fiorentino e gli avevano affittato questa bottega tutta intera. Se non chè, dopo l’8 settembre, visto che c’era molta richiesta di piatti da parte degli americani, i proprietari se ne scesero giù. Cominciarono a chieder indietro un pezzo di bottega e poi ad avanzare pretese sempre maggiori per la questione degli spazi. Insomma praticamente lo costrinsero a doversene andare via.”

Alla fine tanta perseveranza fu premiata. Nel 1944, Oronzo Mastro aprì la bottega che avrebbe poi condotto il figlio Giovanni, e dove attualmente lavorano i nipoti Marcello e Oronzo.
Non fu tuttavia possibile trovare un terreno disponible nel quartiere delle ceramiche[4], e Oronzo si risolse a costruire la bottega in località Antoglia, una zona periferica, attualmente Via Messapia. Si trattò di una scelta forse obbligata, ma che avrebbe penalizzato la commercializzazione dei prodotti della bottega Mastro, e questo a prescindere dalla loro indubbia qualità.
Oronzo Mastro: “Quando Nonno costruì quà la bottega i figli non erano molto d’accordo. Però lui aveva questa teoria: quando un ubriacone sa dove sta il vino buono, anche se la cantina è distante ci va lo stesso. Si sbagliava, e purtroppo ha pagato sempre questo scotto. Anche negli anni in cui non c’era il turismo a Grottaglie, ma c’erano i compratori, era un evento che i calabresi o i napoletani venissero fin qui a comprare le capase.

fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi)
La maggior parte delle botteghe di Grottaglie erano molto specialistiche: facevano per esempio piatti, oppure capasoni: quindi l’arte faenzana oppure l’arte grossa, grossolana. Mio Nonno invece era in grado di fare tutto. D’altronde dovevi fare tutto per sopravvivere: dall’orinatoio al fischiettino.”

L’attività della bottega Mastro fu proseguita dai figli Rosario, Cosimo e Giovanni. Tra loro Giovanni si rivelò il più dotato: come il padre era un ceramista completo e raffinato. Dal 1969, con lo scioglimento della società tra i fratelli Mastro, Giovanni prese in mano le redini della bottega, conquistando una maggiore libertà espressiva e riuscendo peraltro a dedicarsi maggiormente a produzioni da lui predilette come presepi e fischietti.[5]
Oronzo Mastro: Papà era un ceramista completo. Sapeva fare tutto: dagli smalti, ai colori, alla modellatura a mano e al tornio, al decoro.
Quando chiusero la società con i suoi fratelli tutti lo volevano come lavorante, e per un certo periodo lo ha anche fatto. Però, come il Nonno, anche lui voleva la sua bottega.

E’ morto a poco più di 60 anni. Ha tirato la vita coi denti, perché è nato sofferente ed arrivare a quell’età è stata una lotta incredibile.

Quando è scomparso abbiamo messo via tutto quello che avevamo in bottega di suo, non abbiamo venduto neanche più un pezzo. Sai quanta gente venne a chiederci di vendere? Ma noi, pur nel bisogno, ci siamo sempre rifiutati.”


Un mestiere massacrante

Il racconto di Oronzo Mastro ci fornisce un affresco vivido riguardo alla durezza del mestiere degli operai nelle botteghe artigiane. Avendo lavorato da ragazzino come apprendista nella bottega del padre, ha fatto in tempo a conoscere la realtà di una bottega prima dell’arrivo delle tecnologie, che ne hanno trasformato la natura ed hanno contribuito ad alleviare la fatica degli artigiani.
“Era un lavoro massacrante, terrificante, credetemi. Specialmente per gli operai, quelli di bassa lega. Ci si ammalava veramente di tutto. Voi immaginate che lo smalto era a base di piombo, ed io ricordo che quando entravo nella bottega dove era stata fatta la smaltatura, sentivo un sapore dolce in gola. E questo era il minio, l’ossido di piombo. Ti penetrava dentro, e non c’era un ceramista che avesse i denti suoi. Diventavano neri, venivano corrosi da questo materiale. Il problema maggiore era quando bisognava pulire. Oggi si usano le spugnatrici o altre cose, allora si puliva con uno straccio. Quindi tutti si ammalavano di saturnismo, detta anche colica piombina.

Oppure ci si ammalava di silicosi. Perché quando l’argilla veniva sminuzzata, questa bottega diventava un unico grande contenitore di polvere.
Quando avevo 11 anni ed imparavo a lavorare al tornio, ero a ridosso del frangizolle. Mentre imparavo a fare questi salvadanai - 100 al giorno,  3 lire a salvadanaio -  respiravo questa polvere. E ancora oggi se respiro della polvere di creta mi fa male lo sterno. E c’è da dire che  io ero un privilegiato, perché in bottega ci lavoravo solo l’estate. Ma chi ci lavorava da una vita accumulava anno dopo anno l’immissione nel corpo di queste sostanze.

Poi, immaginate le giornate intere passate davanti alla fornace estate e inverno: l’estate ancora ancora, ma l’inverno, se dovevano fare un bisogno, quei poveracci uscivano in strada tutti sudati. Quindi immaginatevi le bronchiti che si prendevano!

Eppure c’è stato un operaio nostro, Cataldo, che era proprio una “macchina da lavoro”, nel senso che non si è mai tirato indietro né dal preparare la creta né dal fare le cotture. Oggi ha quasi 90 anni ed è ancora vivo e vegeto.” [6]


Il rito della preparazione della creta

Particolarmente minuziosa ed efficace è la descrizione che Oronzo Mastro fa del processo di preparazione della creta. Lui stesso la definisce un “rito” e ne sottolinea gli aspetti più suggestivi, come la “danza” a piedi nudi sulla creta da impastare o la sacralità inviolabile del magazzino dell’argilla:
“La creta veniva cavata da Grottaglie e da Monte Mesola, queste erano le grandi cave. L’argilla migliore era quella di Grottaglie, che è un filino più pura. Quella di Monte Mesola invece è più abbondante ma più ricca di impurità.
C’erano questi cavatori che si occupavano dell’estrazione. Ci si rivolgeva a loro e venivano con i cavalli a portarci le zolle. A Grottaglie c’erano delle cave a cielo aperto - dove non c’era pericolo - e altre cave a miniera che erano pericolose. Purtroppo ogni tanto si verificava qualche crollo e questa gente rimaneva sotto.

Una volta portata in bottega si metteva prima di tutto ad essiccare. Si stendeva fuori sperando che non piovesse.
fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi)
Poi veniva ritirata e immagazzinata in un posto che si chiamava la palazza, che era sacro, quasi una basilica. Quando entravi dentro la palazza dovevi entrare a piedi nudi o pulendosi perfettamente le scarpe, per non importare in quel
luogo corpi estranei che avrebbero potuto inquinare o  ferire le mani di chi andava a lavorare la creta.

Quando era tempo di preparare la creta si prendevano queste zolle enormi e si spaccavano. C’erano due tipi di mazze: con le mazze grandi, quelle proprio da lavori forzati, le zolle venivano sbriciolate grossolanamente; poi gli operai si sedevano per terra con dei magli di legno e continuavano a sbriciolare la creta fino ad avere una granulometria di dimensioni piccole come quelle del brecciolino grosso.

Si prendeva questa roba macinata, si setacciava, e quello che usciva fuori – che chiamavamo farina - si metteva da parte. Quello che rimaneva si metteva a bagno in delle vasche e stava uno o due giorni a bagno finchè l’argilla non si riempiva completamente di acqua.

Poi la creta veniva tirata  fuori da queste vasche e distribuita a terra come una sorta di ciambella. A questo punto interveniva Cataldo, quel nostro operaio di cui ho detto e che oggi ha 90 anni. Danzando, girava con i piedi su questa ciambella una, due, tre volte. Facendo questo lavoro, girando attorno, maciullava la creta. Ed era bellissimo, sembrava veramente una danza della pioggia. Siccome  la ciambella era troppo molle, man mano che girava si addizionava quella farina che si era lasciata da parte.
Quando l’impasto  raggiungeva una buona omogeneità veniva presa questa ciambella, si tagliava a blocchi e veniva passata
attraverso due cilindri che ruotavano in senso inverso. Questa operazione aveva
lo scopo di schiacciare i granuli che il calpestio non era riuscito a eliminare. A quel punto veniva fatta una massa unica di argilla.

Il lavoro non era finito, bisognava ancora renderla uniforme, omogenea alla lavorazione al tornio. Non ci dovevano essere pezzi più duri e più molli, parti più secche e parti meno secche. Ma la massa non poteva essere lavorata subito, perché doveva sedimentare. Le molecole erano tutte in agitazione, e quindi la creta si sgretolava, si scagliava.
Solo dolo dopo 3, 4, 5 giorni si poteva ricominciare a lavorare. Allora si prendeva un filo di ottone, si tagliavano i blocchi, si metteva la creta su delle lastre di granito o di cemento, e la si impastava. Veniva prima lavorata come se si facesse il pane, rivoltata, ribaltata. Dopo di che veniva sbattuta. Si prendevano dei pezzi di creta e si scagliavano sul tavolo. Poi si staccavano e si faceva di nuovo. E partivano schizzi dappertutto.

Alla fine si facevano delle palle di creta a seconda della grandezza dell’oggetto da modellare. E lì cominciava la lavorazione al tornio.”

Ovviamente a Grottaglie, come ovunque in Italia, il processo di modernizzazione dell’arte ceramica ha reso obsoleti ed antieconomici questi procedimenti di preparazione e depurazione dell’argilla.
Oronzo Mastro: “Fino a qualche tempo fa qualcuno ancora usava la creta locale. La bottega Fasano ad esempio la mischiava con l’argilla industriale.
Oggi questa creta non la usa più nessuno. Per lavorarla bisogna raffinarla, e la spesa non vale l’impresa.
Se nella creta rimane un calcinello – che sarebbe una pietruzza di solfato di calcio -  durante la cottura riaffiora e fa saltar via lo smalto.  Queste pietruzze le puoi eliminare con la setacciatura. Papà infatti quando voleva fare qualche pezzo particolare portava l’argilla allo stato liquido e la filtrava con dei setacci a maglie finissime. Tutto quello che era corpo estraneo all’argilla rimaneva al di qua del setaccio, e quella che filtrava la potevi lavorare con tranquillità. Però se tutta l’argilla tu dovessi prepararla in quella maniera ci metti troppo, diventa antieconomico.

Ora la ceramica è un prodotto raffinato, se proponi un piatto a 200 euro non può esserci un calcinello che fa saltare un pezzo di smalto. Mentre se una capasa ha un calcinello che è saltato chi se ne frega! Allora non erano così sofistici.

Adesso invece la creta viene bella e pronta, in sacchetti da 25 kg da Montelupo o da San Sepolcro. E quindi non c’è neanche più chi deve preparare la creta.”


La fornace a legna

Altrettanto affascinante è il racconto di Oronzo sulla fase di cottura dei pezzi nella fornace. Un lavoro durissimo, ma con alcuni momenti piacevoli e pieni di suggestione. Tra questi ultimi il rito propiziatorio che chiudeva la fase della cottura, con l’invocazione ai vari santi e alla Madonna.

“Per me l’arte del vasaio è il lavoro più incredibile del mondo, è magia vera. Ed il clou del ciclo di lavorazione era la cottura, dove vedevi questi pezzi veramente trasformarsi.
Quando si cuoceva un forno era bucolico e piacevole, almeno per certi versi. Sentivi il profumo di frasche mediterranee, perché si bruciavano legni nobili: di ulivo, di nocciolo, di mandorlo. Quindi sentivi un gradevolissimo odore.

La fornace grande era proprio qui, dove stiamo parlando. Si vedono ancora le pareti annerite. Chiaramente la fornace non era grande come questo ambiente: le pareti dovevano essere coibentate, altrimenti il fuoco le avrebbe divorate. E allora con dei materiali che si producevano sempre nella bottega - dei vasi, dei cilindri - si facevano una serie di coibentazioni tra il muro e la parete del forno. E poi lo stesso forno era costruito con i mattoni che si producevano sempre in bottega.
fischietto di M. Blasi (Coll. Lo Bosco)
Queste capase le abbiamo trovate nel muro: praticamente erano la coibentazione del forno.

La prima cottura si iniziava la mattina e ci volevano 36 ore circa per completarla. Ma questo forno era piccolo: c’era il forno di Fasano che era di 100 metri cubi, e la cottura durava 4 giorni ininterrotti.
La seconda cottura avveniva in un forno più piccolo e quindi ci si metteva meno tempo
Si facevano dei turni, ma per modo di dire: non è che si andava a casa. La notte magari quando uno cedeva la pala all’altro si buttava in un angolo e dormiva. Ma il giorno si andava a dare una mano in bottega. Quindi erano turni davanti al focolare, ma poi si andava a buttare il sangue in bottega.

Il focolare era qui sotto. La mattina presto si veniva ad accendere un piccolo fuoco. E ogni tanto si buttavano dei pezzi di legno belli grossi, non di facile combustione. Finchè non si faceva un pavimento di brace. La temperatura doveva salire lentamente, altrimenti uno shock termico poteva rompere tutto. Quindi fino ai 3-400 gradi -  ma era una stima così, a intuito - si andava avanti in questo modo. Poi, a poco a poco si cambiava tipo di combustione. E si alternava: una frasca, oppure fronde di ulivo, a una palata di sansa.
Inizialmente si alimentava in maniera molto lenta, ma verso la fine diventava un lavoro continuo, quasi parossistico.

Quando si buttava una palata di combustibile la si buttava in modo che andasse su tutto il pavimento del focolare, per garantire sempre un’uniformità di cottura. E mentesi faceva così, insieme alla palata entrava aria. E quindi in un primo momento c’era un risucchio, e subito dopo un ritorno di fiamma. C’erano queste lingue di fuoco che uscivano dal focolare e dai buchi del forno, e l’operatore si doveva anche allontanare per non venire investito.
Il colore del fuoco nel focolare doveva essere uniforme.  Se c’erano delle parti più scure voleva dire che la temperatura non era uguale dappertutto. E allora si invitava chi buttava palate di sansa a insistere un po’ su quella zona.

La stima della temperatura si faceva principalmente ad occhio. Per fare questo c’erano delle toppe ai vari livelli della fornace che permettevano di spiare dentro. La cottura avveniva quando dentro il colore del forno era di un bell’arancio vivo, ed una volta che la temperatura era raggiunta nei vari livelli queste toppe venivano chiuse. Rimanevano per ultime le toppe in alto, dove in corrispondenza di queste fessure si mettevano i mostrini, dei cilindri di argilla cavi e smaltati con delle pennellate di giallo rosso e verde. Inserendo un ferro ad uncino dentro il forno veniva estratto questo mostrino, e si vedeva se la temperatura era stata raggiunta. Se non era perfettamente lucido si doveva dare ancora fuoco.

Quando tutto sembrava pronto magari si andava a chiamare qualche collega di cui ci si fidava e si chiedeva un parere: “tu cè ne dice, siamo arrivati?” A quel punto si chiudeva anche il focoale.

Oronzo Mastro: “E a questo punto iniziava la parte sacra della cosa, il rito propiziatorio. Le ultime palate dovevano essere dedicate ai santi perché proteggessero la cottura. E iniziavano le varie invocazioni a Santo Oronzo, alla Madonna de lu Carmine, e così via. Noi bambini ci mettevamo tutti attorno a dire all’operatore - che poteva essere Cataldo o Vituccio: “u nome mio, u nome mio!” E l’ultima invocazione era “…e lu Signore cu la benedice!” Si buttava quest’ultima palata, la frasca benedetta, e a questo punto si chiudeva la toppa.

Non molto tempo dopo, spesso anche il giorno dopo, si iniziava a riaprire il focolare. Perché non si poteva far si che la legna diventasse cenere. Si doveva trasformare in carbonella e doveva essere venduta nelle case per riscaldarsi. E allora veniva spenta la brace.

Quando ancora la temperatura non si era proprio abbassata, si cominciava ad aprire anche sopra. C’erano un tasso di umidità e un calore spaventosi, e gli operai entravano dentro a questo inferno con addosso un sacco di iuta bagnato. E li si vedeva se si era stati bravi a condurre il fuoco. Perché bastava poco per rovinare una cottura, e una cottura era il lavoro di mesi! Bastava che si insistesse più su un punto perché in quella zona ci fosse una temperatura altissima che scioglieva i vasi, li fondeva. Ed è successo tante volte.

Io mi chiedevo: per la carbonella posso capire, ma i pezzi che stanno nella parte sopra della fornace perché devono essere recuperati quando la temperatura è ancora alta? Niente, così era, si cominciava subito. Anche perché magari c’era il cliente che aspettava. E poi tanto non se ne fregava niente nessuno della salute degli operai.”

  
L’autoproduzione degli smalti

Ovviamente le botteghe provvedevano anche alla produzione degli smalti necessari a impermeabilizzare e decorare le terrecotte.
Oronzo Mastro ci spiega come in realtà non vi fosse uno smalto omogeneo da utilizzare indifferentemente per tutti i pezzi. Anche per il secondo fuoco erano utilizzate infatti grandi formaci a legna, al cui interno vi erano giocoforza zone con temperatura disomogenea: questo rendeva necessaria la produzione di smalti con diversi punti di fusione, a seconda della zona del forno dove erano collocati i pezzi da smaltare. La preparazione e la scelta dei vari smalti  richiedeva dunque una particolare abilità da parte dei maestri.

Oronzo Mastro: “Gli smalti li facevano le botteghe stesse. In bottega arrivavano i rottami di piombo che andavano calcinati in un fornetto. La calcinatura avveniva tramite fusione e continuo movimento di questa massa incandescente. Finchè praticamente le molecole si disgregavano e diventava polvere.

Anche i rottami di ferro si calcificavano e quello era la base che serve a fare il color miele, lo smalto miele.
Papà raccoglieva o i risultati della battitura del ferro, le piccole scheggine, o i barattoli di conserva. Li schiacciavano e li mettevano nel focolare, sotto.
Con i rottami di rame invece si faceva l’ossido di rame, per fare il verde. E così via.

Ci voleva una grande maestria nel produrre smalti con diverso grado di fusione. Perché essendo i forni così grandi, era impossibile che alla base e in alto ci fosse nello stesso momento la stessa temperatura. Dovevi variare la formula dello smalto a seconda dell’altezza degli oggetti nel forno. Quindi alla base, dove il forno arrivava prima a temperatura ci voleva uno smalto più refrattario. E invece in alto, dove arrivava la gradazione si raggiungeva alla fine, uno smalto con un punto di fusione più basso. E in queste cose venivano fuori le grandi capacità di chi allora aveva una bottega. Ora basta andare in un deposito di smalti e ti compri tutto.”

A volte si utilizzava la tecnica dell’ingobbio, consistente in un bagno di acqua e caolino nel quale venivano immersi i pezzi ancora crudi. A questo scopo, il caolino veniva depurato e separato dal quarzo tramite un procedimento che prevedeva una serie di lavaggi. [7]

Si tratta ancora una volta di procedimenti oggi dimenticati da buona parte dei ceramisti moderni, anche se Marcello Mastro ci rivela che la bottega Mastro fa ancora qualche concessione a procedimenti di autoproduzione che teoricamente dovrebbero appartenere al passato: “La cristallina la facciamo ancora noi. Abbiamo provato qualche volta a usare quella che si acquista, e non era la stessa cosa.”


Il “carattere” dei Maestri del passato

Come abbiamo visto, i fratelli Mastro non idealizzano il passato della ceramica di Grottaglie, e mostrano di essere ben coscienti di quanto insalubre e faticosa fosse la vita degli artigiani di un tempo. Allo stesso tempo nelle loro parole è viva l’ammirazione per l’abilità e la dignità dei maestri del passato, soprattutto rispetto ad un presente dove troppo spesso la qualità è stata scalzata da un’attenzione esasperata ai gusti del mercato turistico.
Oronzo Mastro: “Un tempo tutti facevano gli stessi oggetti a Grottaglie: tutti facevano ad esempio gli struli, gli orci, le capase, eccetera. Però quando vedevi un pezzo, tu capivi chi era il maestro che lo aveva fatto. Lo capivi dalla forma, da impercettibili variazioni. E questo era carattere.
Oggi invece c’è questo scopiazzamento generale, e tu non sai più chi ha fatto cosa.
Salvo appena due o tre botteghe di questo paese, che continuano a fare cose di qualità. Per il resto tutti si copiano a vicenda, ma senza intelligenza. Pochi hanno ormai ha la capacità di fare cose di livello. Appunto: non c’è più carattere.


Presente e futuro delle Ceramiche Mastro

Pur tra mille difficoltà la bottega Mastro è rimasta una realtà produttiva attiva e che produce alcune delle ceramiche più interessanti di Grottaglie. Vicissitudini della vita e necessità economiche hanno portato i fratelli Mastro a dedicarsi anche ad altre attività collaterali, ma senza  mai abbandonare il lavoro della bottega di famiglia. In questo Oronzo e Marcello mostrano di essere simili a Padre e Nonno in quanto a tenacia.

Oronzo Mastro: “Mio Padre è morto il 16 settembre del 77, quando io avevo 27 anni. Immaginate: io insegnavo a Novara,[8] e da allora ogni momento libero arrivavo qua, riaprivo la bottega, e mi davo da fare: a Natale, per i Morti, durante l’estate. La mattina stessa che ho sepolto mio Padre sono venuto qua a lavorare. Da quel momento è diventato impellente lavorare in bottega, sia per amore suo - perché non ho voluto che si perdesse questa l’attività della bottega -  che anche per una questione economica. Il mio stipendio non poteva bastare per mantenere tutta la famiglia. E tanto meno bastavano quei 2 soldi di pensione di mia Madre.
Con questa bottega sono riuscito a sostenere la famiglia in quegli anni difficili, e ancora adesso dò una mano a Marcello, mio fratello più piccolo.

Come è stato per mio Nonno e mio Padre, che hanno sempre fatto di tutto per avere una propria bottega, anche per me oggi me è un punto d’onore mantenere questa attività.
E qualche riconoscimento lo abbiamo avuto. Facciamo delle cose che - quando la gente riesce a vederle - vengono apprezzate.”

fischietto di M. Mastro (foto G. Croce)
I testi sono di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata


[1] Peppino Carella organizzò nel 1979 la I edizione di quella che fu la prima rassegna in Italia dedicata ai fischietti in terracotta. L’iniziativa dette in questo modo un contributo importante alla rinascita di interesse verso questa forma di artigianato da parte di studiosi, appassionati, collezionisti. Dopo aver raggiunto un crescente successo la rassegna si interruppe negli anni ’80, ma aprì la strada ad altre manifestazioni di questo genere .
[2] La descrizione è contenuta nella tesi di laurea di Paola Piangerelli dell’AA 1973-74 (pubblicata in Sibilus 2, Agenzia Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, 1994). Anche P. Piangerelli (cur.) , La Terra, il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Edizioni De Luca 1995 riprende – anche se in maniera meno diffusa – notizie su Giovanni Mastro e pubblica le foto di numerosi fischietti acquisiti nel 1974.
[3] Clizia, “3 uomini in tenda, scorribanda appulo-lucana nel mondo dei fischietti”, 1995. Si tratta di un volumetto ciclostilato e distribuito tra gli appassionati di ceramiche fischianti dell’associazione Anemos.
[4] La celebre zona delle botteghe di ceramica di Grottaglie è nota nel dialetto locale come “li cammen’ri”  –  nome proveniente dalla presenza dei camini delle fornaci.
[5] Oggi i pezzi di Giovanni Mastro sono conservati in importanti musei e collezioni private come il Museo Nazionale delle Arti e tradizioni popolari di Roma, il Museo delle Ceramiche di Faenza, la collezione Majorana di Taranto.
[6] Citiamo volentieri alcuni tra gli operai che lavorarono presso la bottega di Oronzo Mastro, come Mestu Linardo di Rozzlamuenici, Francesco Magazzino ed Emanuele Patruno. Si veda “Francesco Mastro e Ciro Logorio, “I Mastro, più di un secolo di tradizione”, testo che accompagnava la mostra realizzata a dicembre 2000 http://digilander.libero.it/ciroarcad/camini/index_file/Page1571.htm.
[7] P. Piangerelli, op. cit.
[8] Oronzo è tutt’ora professore di arte pittorica presso il Liceo Artistico Statale della città piemontese.

Nessun commento:

LinkWithin

Related Posts with Thumbnails

Ricerche maestre

Ricerche Maestre