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martedì 16 marzo 2010

Memorie e Suoni di Terra - Mario Iudici

Memorie e Suoni di Terra
conversazioni con i maestri artigiani costruttori di fischietti in terracotta


Mario Iudici: un custode del patrimonio culturale della ceramica calatina



La prima cosa su cui si sofferma Mario Iudici durante la nostra visita alla sua bottega di Caltagirone, sono gli strumenti di lavoro con i quali suo Nonno, suo Padre, e fino a non molti anni fa lui stesso, hanno prodotto fischietti e terrecotte.
Non si tratta ovviamente di un caso: l’elemento caratterizzante della produzione di Iudici è proprio l’attaccamento a soggetti, ma anche a tecniche, ritmi di produzione, materie prime, tramandati nei secoli dalle botteghe dei ceramisti di Caltagirone. Perpetuare tradizioni antiche – scelta figlia del suo amore viscerale per le espressioni della cultura popolare siciliana - è l’essenza del fascino che i fischietti di Iudici hanno per tutti gli appassionati del genere.

Ci racconta Iudici: “L’artigiano all’epoca si faceva da solo gli smalti. I 4 colori che si usavano erano: giallo, verde rame, rosso manganese e bleu.
Mi ricordo che mio Padre andava dal “quarararo” - chiddu che stagnava le pignate, le padelle – per farsi dare la ramata, la pulitura delle pentole. Questa veniva macinata e con il silice componeva il verde rame.
Per fare il manganese si andava a prendere la terra in Contrada Pietrarossa, nei pressi dell’omonimo fiumiciatello “u sciummu ri Petrarussa”. Si chiedeva a un contadino di quelli che c’avevano la proprietà del terreno il permesso di portarsi via qualche peso di questa terra che conteneva tutto il manganese. La terra veniva cotta, veniva macinata e così si faceva il colore rosso.
Il giallo oro si componeva con l’antimonio e con lo smalto. Il bleu, con l’ossido di cobalto che poi veniva dosato con lo smalto a seconda della tonalità più forte o meno forte che si voleva ottenere.”

“E la cosa più importante è che l’artigiano si faceva anche i pennelli. La criniera del mulo era la più adatta. Tutti gli antichi artigiani, dal medioevo fino al 1950 i pennelli se li facevano loro. Chi lavora oggi ha tutto pronto: smalti, pennelli, colori, tutto. Ma allora era così. L’artigiano si faceva tutto.”

Dal racconto dell’anziano ceramista è evidente il suo attaccamento alla tradizione artigianale calatina, ma non per questo Iudici idealizza il passato. Ancora vivo è infatti anche il ricordo di quanto dura fosse la vita dell’artigiano.
Per cuocere la fornace ci si doveva alzare a mezzanotte per appiccare il fuoco, e poi si finiva all’indomani pomeriggio alle 5, alle 3, a seconda del contenuto del forno.”

“E naturalmente si andava a prendere la creta nella cava a Sant’Orsola. Saranno stati su per giù 600-700 metri di strada. Porca miseria, io l’ho fatta questa vita: caricarsi banchi di argilla sulle spalle, farsi la provvista per tutte le stoviglie di mio Padre...una vita da schiavo!

La fornace
A questo punto del racconto, Iudici ci porta a visitare la fornace che ha fatto costruire sul modello di quelle dei vecchi stovigliai nel 1968 – anno cui lasciò al fratello l’antico laboratorio di famiglia. Si tratta di un grande ambiente aperto su due lati, ma coperto interamente da una cupola chiusa da un fumaiolo smaltato con colori vivaci e fabbricato dallo stesso Iudici.
I forni sono due. A seconda degli oggetti da cuocere si usava quello più grande o si usava quello più piccolo. I fischietti erano di riempimento, si mettevano più o meno di sopra per aiutare a trattenere la caloria.”
L’artigiano doveva avere quell’esperienza di conoscere la temperatura ad occhio, e sapere quando doveva smettere di alimentare il fuoco. Sia per la prima che per la seconda cottura: ad occhio.
Questa bocca, vede”
– dice indicando un foro nella fornace – “veniva chiusa tutte le volte che si faceva la cottura con un tappo di argilla. E questa era la spia per guardare all’interno del forno se la temperatura era arrivata o no. E qui, invece, il fuoco veniva alimentato con la legna.”

“E questo è il forno di calcinazione del piombo, dove si faceva lo smalto. Lì dentro si mettevano i ritagli di piombo, qui veniva alimentato con della legna. E sempre ad occhio, quando arrivava a 300-350 gradi, si doveva mescolare. Quando si scioglie, il piombo diventa come l’argento. Poi, sapendolo mescolare, diventa come la sabbia. Si calcina, si ossida. Fare lo smalto era faticoso, pesante, perché si doveva sempre mescolare, mescolare, perché il piombo si ossidasse. Poi si macinava con una pietra, a mano, e si componeva con la silice nel forno di calcinazione, a 900-920 gradi. Una vita brutta, ed io l’ho fatta.”

“Io ho smesso nel ‘77-79, mi sembra, di far funzionare il forno a legna. Ho continuato con il forno a gas, perché questa vita non potevo farla.”

Mario Iudici rimane profondamente attaccato alla tradizione produttiva di cui ci racconta, e comprensibilmente vorrebbe che fossero preservate le testimonianze di quello che non è solo il suo mondo, ma un pezzo importante della nostra cultura.
Per questo l’artigiano esplicita il suo disappunto per la scarsa attenzione dedicata dalle istituzioni ai beni culturali ed architettonici di Caltagirone, spesso lasciati all’incuria, o addirittura preda di interventi speculativi. E’ il caso dell’antica fornace della famiglia Iudici nella zona degli stovigliai di Sant’Orsola.
La vecchia bottega Iudici, nel quartiere degli stovigliai, l’hanno fatta demolire tutta. Questo è un crimine che hanno fatto a Caltagirone. C’era un forno meraviglioso. La cupola, la copertura, era tutta fatta con lo scarto di terracotte di risulta: bami, lemme, burnie. Era un’opera d’arte.
La fornace avrebbe dovuto essere restaurata e richiamare il turismo.”

“Ora la mia nuova fornace potrebbe essere messa in ordine, restaurata, e messa a disposizione del pubblico. C’è la cultura araba nella copertura di questo forno a legna. Ma nessuno se ne interessa.”

L’opera dei pupi
Bisogna sottolineare che nel portare avanti questa battaglia per la salvaguardia del patrimonio culturale della sua terra, Iudici non si è limitato in questi anni ad invocare l’intervento delle istituzioni competenti. Lui stesso è impegnato in prima persona, investendo tempo e risorse economiche in quella che sente come una missione: custodire e preservare le testimonianze dell’arte popolare.
Tutto quello che era antico io lo compravo. Guardi che splendore questo Cristo qua in legno. Avrei molto piacere che queste cose fossero messe in evidenza, esposte al pubblico.”

“Ho comprato e sto custodendo anche l’opera dei pupi. Sono pupi siciliani alti così. E questa collezione è di uno dei più famosi pupari di Catania.
[1]
Ho preso i pupi, i cartelloni, le locandine, le scene, 5 scatole di manoscritti. Di queste locandine ne ho quasi 100. Per esporle si pagava il diritto di affissione e ci sono le marche da bollo su alcune. Questa è del 1927, c’è il francobollo” dice mostrandoci uno dei grandi fondali in carta con scene dipinte a mano che riempiono i pochi spazi della sua bottega lasciati liberi dalle scaffalature.

“Se questi pezzi andavano nelle mani dei rigattieri li avrebbero smembrati tutti uno per uno. Io invece, da ignorante, le ho conservate tutte queste cose. Vengono persone e mi dicono: “mi vendi un cartellone?”. Ma io le tengo per esposizione, per far vedere la nostra storia.”
A riprova del suo grande valore, l’opera dei pupi siciliani, acquistata nel 1970 da Mario Iudici, è stata riconosciuta dall’Unesco come patrimonio orale ed immateriale dell’umanità.

I soggetti dei “frischitti”
Questo suo amore viscerale per le espressioni della cultura popolare siciliana hanno spinto Mario Iudici a riprendere e perpetuare fino ai nostri giorni soggetti e iconografie dei fischietti tramandati nei secoli dalle botteghe dei ceramisti di Caltagirone.

Tradizionalmente, fischietti calatini e siciliani in genere sono ricavati da calchi in gesso e - dopo la cottura - decorati a freddo. Trattandosi di oggetti “poveri”, destinati ai bambini delle classi umili, per ridurre tempi e costi di produzione veniva utilizzato un calco semplice, che lasciava il fischietto piatto sulla parte posteriore.

Tra gli artigiani tradizionali presenti in Italia, Mario Iudici è depositario di uno dei repertori più vasti e diversificati di fischietti. Sono circa 60 o 70 i modelli prodotti dalla sua bottega, e questo solo per rimanere a quelli realizzati seguendo fedelmente iconografie tradizionali.[2]
Da questo punto di vista bisogna essere grati a Iudici per avere preservato un patrimonio così ricco e prezioso, svolgendo in fondo - anche se in maniera istintiva - il lavoro di ricerca serio e rigoroso proprio di un etnologo.
Nel 1977 – in pieno periodo di crisi produttiva delle botteghe di ceramica dovuta all’avvento della plastica - lo studioso Antonio Uccello notava come il repertorio figurativo della bottega Iudici fosse di appena 15 tipologie di fischietti, di cui 5 soggetti religiosi, 6 figure antropomorfe, 3 animali, un panierino.[3]
Da allora Mario, affiancato dal figlio Giacomo, ha portato avanti questo lavoro di ricerca volto ad ampliare il suo catalogo di soggetti appartenenti alla tradizione calatina. Le modalità con cui la famiglia Iudici è riuscita a recuperare e riportare in vita soggetti tradizionali sono varie.
Ovviamente Mario si è servito di calchi di gesso d’epoca, in parte ereditati dal padre, in parte recuperati tramite altri artigiani.
Tutta la collezione su per giù sono 60-70 soggetti. Sono tutti modelli originali dell’epoca. Alcuni sono fatti con gli stampi in gesso originali di mio Padre. Con l’uso si rovinano, ma poi si restaurano e si fa nuovamente la forma.
Poi c’era un certo Totò Leone, che usava degli stampi che non avevano più né naso né bocca, niente. Glie li sistemavo io. Mi facevo il doppione e arricchivo la collezione.”

In altri casi si ricorreva a copie di modelli realizzati da artigiani anziani o scomparsi
Anche questi sono fischietti originali perché li abbiamo presi con mio figlio al museo dell’Eur di Roma, e provengono tutti da Caltagirone. Alcuni fischietti non hanno né nome né cognome, ma più che altro provengono da “u Nacchiareddu o u Pallonaru.”[4]

Il risultato di questo lavoro di recupero di soggetti tradizionali è rappresentato dagli 83 esemplari donati nel 1989 da Mario e Giacomo Iudici all’allora Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma – oggi Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia.
Un'altra serie completa di fischietti calatini è custodita dallo stesso Mario, che ce la mostra spiegandoci quali siano le diverse tipologie.
Ecco la collezione dei fischietti. Tutta la collezione completa. Questi sono uguali a quelli del museo, perché gli smalti sono stati fatti con un sistema tradizionale.
I soggetti più tradizionali sono u cavalluccio e u cestino. Perché poi c’era questa tradizione: ai maschietti si comprava il cavalluccio. Di questo soggetto se ne facevano diversi tipi, ad esempio questo con il cavaliere con copricapo a piramide. Alle femmine invece ci compravano u cestino.
“U ruscignolo” era un fischietto con l’acqua. Il cavalluccio era fatto a mano, soltanto i cavalieri erano a stampo.”

Poi ci sono ovviamente i famosi “santi col fischio”. Tra i fischietti donati dalla famiglia Iudici al MNATP, ben 36 riproducono soggetti religiosi.
Quella di realizzare fischietti raffiguranti iconografie di santi è una peculiarità di alcune aree della Puglia e soprattutto della Sicilia.[5] L’apposizione del modulo sonoro a immagini sacre – altrove irrituale o considerato addirittura irrispettoso – era qui invece una usanza molto diffusa ed assolutamente in linea con il sentimento religioso popolare.
Alcuni soggetti di Iudici colpiscono per l’intensità quasi espressionista - come il Cristo risorto - o per il senso della compassione e del cordoglio - come il Cristo morto (o Cataletto) e le varie versioni dell’Addolorata. Si tratta indubbiamente di suggestioni piuttosto lontane dal classico fischietto popolare italiano ma invece tipiche del “frischittu” siciliano a tema religioso.
La vendita dei fischietti a soggetto religioso avveniva il più delle volte durante le feste patronali dedicate ai diversi santi protettori.[6]
Le stoviglie e i fischietti che si facevano a Caltagirone li prendevano i commercianti, i rigattieri. Tutti questi rigattieri portavano i fischietti nei vari paesi in occasione della festa del patrono locale. Li caricavano sul carretto siciliano e andavano a fare le feste dei diversi paesi che erano dedicate a San Calogero, San Giovanni, San Michele. E si facevano questi fischietti di quel santo protettore per la fiera della festa patronale.”

Tra i fischietti “laici” sui soggetti zoomorfi – prevalentemente uccelli – prevalgono decisamente quelli antropomorfi: damigelle, il ciclista, carabinieri, vari personaggi maschili e femminili a cavallo, pastori e contadini.
Questi sono i famosi pasturi, quelli poveri destinati al nostro popolino. Quelli raffinati, li compravano invece i nobili, i signori. Di questi pastori popolari ne ho 3 o 4 soggetti. Anche in questo caso ho fatto delle ricerche.”

Altre produzioni della bottega Iudici
L’operazione di recupero culturale portata avanti da Mario Iudici non si è fermata ai soli fischietti, ma ha riguardato tutta la produzione delle tradizionali botteghe calatine. Nella sua produzione rientra l’utensileria popolare una volta comunissima nelle campagne e nei paesi siciliani ed ormai in gran parte desueta: lucerne antropomorfe, sajmere per conservare la sugna di maiale usata come condimento degli alimenti; quartare per riempire l’acqua alla fontana pubblica e bubboli per conservarla fresca; u scutiddaru per fare il bucato; fangotti - i grandi piatti per asciugare al sole l’estratto di pomodoro; le burmie cilindriche di varie grandezze per conservare la stessa salsa di pomodoro ma anche melanzane, olive e quant’altro; le tavolette di madonne e santi da apporre al capezzale del letto a protezione di chi vi dormiva, e così via.
Le ceramiche che si facevano anticamente erano queste. Che poi questa ceramica popolare rappresenta tutte le dominazioni che abbiamo avuto in Sicilia. Per esempio u ganciu di Caltagirone deriva dall’arte greca; lu scutiddaru lo hanno portato i turchi. Io dico a tutti quelli che vengono qui: chi ha reso famosa Caltagirone sono stati gli antichi artigiani. Noialtri siamo spazzatura!
Oggi si fa una bella produzione, ma la massa non capisce tutte queste cose. Io mi sono impegnato per conservare questa tradizione e non buttarmi sul souvenir commerciale.”

“C’era una tradizione a Pasqua. Le campane prima suonavano a mezzo giorno. E c’era anche il mercatino dove si vendevano le campane e i salvadanai in terracotta. A mezzogiorno preciso c’era la Gloria, e tutte le campane suonavano, e nei carruggi tutti i ragazzi e i ragazzini suonavamo queste campanelle.
Le ho rifatte anche io, ma mio Padre faceva delle campane più grandi. Questa produzione è scomparsa perché ora Pasqua è a Mezzanotte. Ed io tutte queste cose l’ho volute ricordare.”

Alcuni oggetti prodotti dalle botteghe di Caltagirone erano strettamente imparentati con i fischietti. Stampi in tutto simili a quelli dei fischietti erano ad esempio utilizzati come formelle per la mostarda, dolce povero una volta destinato ai bambini delle classi umili.[7]
Inoltre, Iudici ci spiega come gli artigiani siciliani si servivano degli stessi stampi per produrre sia i pastori da presepe da vendere a Natale che i fischietti da vendere a Pasqua o nelle feste di primavera.
Questa figura a cavallo era un Re Magio che veniva anche sfruttato come fischietto con l’aggiunta del fischio sulla coda. E questi sono gli stampi originali delle forme di mostarda. Di questi ne ho una cassa piena.”

L’antica bottega della famiglia Iudici
E’ documentata sin dal XIX secolo l’attività della bottega della famiglia Iudici a Caltagirone, nel quartiere degli stovigliai di San Giacomo. Vi operarono il Bisnonno di Mario, suo omonimo nato nel 1812, il nonno Salvatore (1854-1930), ed il Padre Giacomo (1866-1951). Anche la produzione di fischietti e presepi accompagna la famiglia Iudici da secoli.
La bottega dei miei avi era del 1800. Produceva stoviglie per uso casalingo. I fischietti sono una tradizione di famiglia. Il primo a farli è stato mio Bisnonno, quindi li facciamo da 3 generazioni, con me quattro.”

Era una bottega di “cannatari”, che producevano prevalentemente stoviglie destinate alle classi popolari, ma che esprimevano anche il loro estro artistico dedicandosi nei ritagli di tempo ad una produzione più colta, ispirata al lavoro dei grandi figurinai calatini.[8]
Finito il lavoro con le stoviglie, di sera mio Padre si dedicava al passatempo dei fischietti. Faceva anche delle figure della cultura bongiovannesca. Sei figure di queste sono al museo all’Eur a Roma.” [9]

Durante il primo conflitto mondiale Giacomo Iudici[10] perse un occhio in combattimento, ma non smise mai di dedicarsi all’attività ceramica insieme ai figli Mario e Salvatore.
Questi continuarono a operare insieme nella bottega di famiglia fino a quando i diversi percorsi artistici seguiti dai due fratelli fecero maturare in loro la decisione di separare le rispettive carriere professionali.
Salvatore, ceramista e decoratore di grande valore, si dedicava a una produzione più colta e aderente ai gusti del mercato. Come abbiamo visto, Mario si dedicò invece anima e corpo alla riscoperta stilistica di una produzione popolare quasi tramontata, trasferendosi nella nuova bottega di via Fontanelle - allora in aperta campagna - e facendo costruire lì la nuova fornace. Si trattava di una scelta coraggiosa per una epoca in cui non era cominciata la rivalutazione dell’arte popolare da parte di studiosi e collezionisti.
Nel ’68 io separai l’attività da quella di mio fratello, perché mio fratello si dedicava al classico, alle anfore, quelle cose stilizzate, faentine, che ancora si vedono in giro. Io non la “sentivo” quella produzione, avevo amore per queste cose qui. Così ho lasciato la bottega nel quartiere degli stovigliai e mi sono trasferito qua.”

Alla lunga, la scelta di Iudici di dedicarsi ad un artigianato popolare troppo spesso ritenuto marginale e di scarso valore artistico lo ha ripagato. Il primo studioso a riscoprire il valore culturale della sua produzione è stato forse il fine etnologo Antonio Uccello: dal 1977 la Casa Museo di Palazzolo Acreide (SR) da lui allestita ospita tutta la serie dei suoi fischietti. Numerose mostre in Italia e non solo hanno reso omaggio alla produzione della bottega Judici, e la rassegna dei fischietti di Caltagirone organizzata a partire dal 1988 dall’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo gli ha conferito nel 1993 il prestigioso premio Andrea Parini. I pezzi di Judici – universalmente apprezzati per accuratezza della fattura e aderenza alla tradizione – sono esposti in numerosi musei[11] e non possono mancare in nessuna collezione di ceramiche fischianti che si rispetti.
Al museo dell’Eur a Roma c’è la collezione intera dei miei fischietti, e ci sono anche delle cose di mio Papà. Io sono già entrato già in 19 musei. Il mio ultimo desiderio è di entrare al Pitrè di Palermo, ma mi dicono che devono sistemalo ancora.”

Fortunatamente, la produzione della famiglia Iudici non si interrompe con la generazione di Mario, ma si è trasmessa al figlio Giacomo, trasformandosi tuttavia in una attività di tipo non professionale e più legata alla passione per le tradizioni di famiglia.
Mio figlio i fischietti li fa. Ha fatto pure le lucerne. Che poi lui è molto attaccato a queste cose, insomma. Ma sa, io ho voluto che avesse il pane sicuro, l’impiego. Perché uno quello che ha passato nella vita non vuole che succeda anche ai propri figli. Lo fa per hobby.”

Prima di congedarsi, Mario ci chiede di firmare il registro dei visitatori. E’ un rito al quale non si può sottrarre nessuno degli ammiratori dell’anziano artigiano. E ci troviamo anche frasi annotate e foto di visitatori venuti dal nord Europa o dall’estremo oriente, di gruppi ed intere scolaresche, di personaggi noti.
Alle persone che vengono chiedo la firma. Poi magari loro lasciano anche una frase, un pensierino, o mi mandano una foto. Qui c’ho le firme di tutte il mondo, metta qua la sua.”

Riferimenti bibliografici

Salvatore Cardello, “A Mario Judici la seconda edizione del premio A. Parini”, in Sibilus 1, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, quaderni del Museo di Arti e Tradizioni popolari, 1993.

Sebastiano Cilberto, “Il Fischio dei Santi nella tradizione popolare siciliana”, in Sibilus 4, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, quaderni del Museo di Arti e Tradizioni popolari, 2004

Antonio Uccello, Fischietti in terracotta di una bottega calatina, Palazzolo Acreide – Siracusa, 1977

Antonio Navanzino, “Giacomo Iudici mastru cannataru”, in L’Obiettivo, Anno 6 numero 5, 6 maggio 2009

Paola Piangerelli (curatrice), La Terra il Fuoco, L’Aria il Soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1995

AAVV, I fischietti in terracotta nella tradizione popolare italiana, Maria Pacini Fazi editore, 1989

Giuseppe Pitrè, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1913 (ripubblicato nel 1973 da Edizioni il Vespro)

Cinzia D'Emilio, I fischietti di terracotta, arte e tradizioni popolari - Tesi di laurea dell’Accademia di Belle Arti "Rosario Gagliardi , Relatore prof. A. Navanzino - Anno Accademico 2005/06, visibile sul sito
http://www.galleriaroma.it/Le%20Grandi%20Raccolte/Fischietti%20di%20Terracotta/Pagina%20Iniziale.htm

Francesco Judica, La Ceramica di Caltagirone, storia e produzione delle maioliche calatine dalla preistoria ai nostri giorni, Giorgio Mondatori

I testi sono proprietà di Massimiliano Trulli, massitrulli@gmail.com, vietata la riproduzione.
Le foto sono pubblicate per gentile concessione di Paolo Loforti.

Note
[1] Si tratta del Maestro puparo Nino Insanguine, che realizzò le 31 marionette nel 1925
[2] Non bisogna scordare che Iudici ha sperimentato anche una serie di innovazioni stilistiche e tipologiche, producendo anche fischietti non rispondenti a quelli tradizionali. E’ ad esempio il caso di una serie di fischietti ispirati a motivi fenici.
[3] Antonio Uccello, I fischietti di terracotta di una bottega calatina, Palazzolo Acreide (SR), 1977
[4] Si tratta dei soprannomi con cui sono conosciuti a Caltagirone due artigiani di culto per i collezionisti: rispettivamente il già citato Salvatore Leone e Nicolò Sampirisi, detto pallunaru per la sua occupazione di costruttore e venditore ambulante di piccoli palloni areostatici di carta velina. Il museo a cui si fa riferimento è invece L’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia di Roma. Buona parte dei fischietti della collezione storica del museo furono acquistati nelle botteghe di Antonio Papale e Enrico Vella nel 1907.
[5] Si veda a tal proposito Edda Bresciani, Festività religiose e fischietti popolari in terracotta in Puglia e Sicilia, in AA.VV, I fischietti in terracotta nella tradizione popolare italiana, Maria Pacini Fazi editore, 1989; oppure Sebastiano Ciliberto, Il Fischio dei Santi nella tradizione popolare siciliana, in Sibilus 4. Giovannelli ha inoltre riscontrato la produzione di Madonne e Santi tra i fischietti delle Marche. Si veda Vito Giovannelli, Fischietti in terracotta di Ripatransone e Massignano, Ed. Italica, Pescara, 2000.
[6] Un passaggio di uno scritto dello studioso Pitrè piuttosto celebre tra gli amanti di cermiche fischianti, recita a tal proposito: “I pastorali fabbricano grossolanamente santi, Madonne, preti, soldati che non sono roba da presepio, ma servono da fischietti (…). I fanciulli, perciò, che in alcune solennità si recano a chiesa in festa, comperano alle porte di esse, ora una Madonna del Rosario, ora un S. Giuseppe, ora un S. Giuseppe Ferreri, ora una Santa Rosalia che fischia. Così in Caltagirone fischia Santa Caterina, l’Immacolata, S. Giacomo, S. Francesco di Paola, e possono fischiare a perdifiato perché di creta cotta; fischia S. Michele Arcangelo a Caltanissetta, il Beato Agostino Novelli in Termini; la Madonna di Mezz’Agosto in Trapani; S. Giovanni Battista a Marsala; S. Vito a Mazara; S. Calogero a Girgenti, Noto, Sciacca, Aragona; Santa Lucia a Siracusa; S. Corrado a Noto, S. Giorgio a S. Pietro nell’alta e bassa Modica e tutti i santi patroni di creta in Sicilia” Pitrè, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1913 (ripubblicato nel 1973 da Edizioni il Vespro).
[7] Lo confermano tra gli altri Paolo Uccello ne “I Santi Patroni non fischiano più” in Sicilia n° 70, 1972 e P. Piangerelli, La Terra il Fuoco, L’Aria il Soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1995
[8] Per una storia della produzione ceramica di Caltagirone si veda ad esempio: Francesco Judica, La Ceramica di Caltagirone, storia e produzione delle maioliche calatine dalla preistoria ai nostri giorni, Giorgio Mondadori.
[9] Nel 1907 il noto etnologo Lamberto Loria si recò a Caltagirone per portare avanti i suoi studi sull’arte popolare siciliana e per raccogliere materiale per il costituendo Museo di Etnografia Italiana. Durante la sua permanenza Loria visitò anche la bottega di Giacomo Judici e acquistò alcuni pastori da presepe che oggi si trovano nella collezione dell’Istituto Centrale di Demoetnoantropologia di Roma.
[10] Molte fonti si riferiscono a Giacomo, ed allo stesso Mario, con il nome di Judici. La “J” iniziale del cognome di famiglia, si è progressivamente trasformata in “I”.
[11] Si tratta in particolare dei seguenti musei: Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza; Istituto Centrale di Etnodemoantropologia di Roma; Casa Museo A. Uccello, Palazzolo Acreide; Museo Regionale della Ceramica di Caltagirone; Museo Internazionale del Presepe di Caltagirone; Museo Etnografico S. Caterina (Grosseto); Museo i luoghi del lavoro contadino di Buscemi (SR); Museo del Presepio del Lago Maggiore, Angera; Museo dei Cuchi di Cesura (VI); Museo Etnostorico dei Nebrodi A. Gullotti di Ucria (ME); Museo dell’Associazione Nazionale Amici del Presepio, Roma; Museo Civico di Urbania; Museo del Presepio di Brembo Dal mine; museo di Palazzo Bellomo (SR); Museo degli strumenti musicali di Chiaramente Gulfi (RG).

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