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venerdì 30 ottobre 2009

MEMORIE E SUONI DI TERRA conversazioni con i Maestri costruttori di ceramiche sonore

LA RAZZA DEI VASAI – la famiglia Peci e i fischietti di Ripatransone

“No, figlioli, non sono un ceramista ma un vasaio! E’ questa l’arte del sottoscritto”. Ci corregge con queste parole Innocenzo Peci, e lo fa in maniera garbata ma decisa. Siamo a Ripatransone (Ascoli Piceno), dove abbiamo chiesto al signor Peci di parlarci delle sue terrecotte e soprattutto dei suoi fischietti, produzione artigianale che nelle Marche ha in lui l’ultimo discendente diretto. Lo incontriamo nel museo che ha voluto creare per il piacere di raccontare queste vicende e tramandare la memoria di un mestiere pressoché scomparso.
All’inizio della nostra conversazione Innocenzo puntualizza dunque di essere vasaio, rivendicando con orgoglio l’identità del mestiere suo e dei suoi antenati: non una produzione di ceramica aulica, destinata al consumo delle classi più agiate. Piuttosto una terracotta popolare: pezzi realizzati con maestria ma di uso quotidiano, acquistati e utilizzati nelle case dei contadini delle campagne e del popolo dei paesi circostanti.

L’anziano artigiano continua il suo racconto davanti a un pannello che raffigura la genealogia della famiglia Peci. Si parte da Bartolomeo – nato nel 1802 e che lavorò come vasaio nella vicina Massignano - fino ad arrivare a lui, Innocenzo. In tutto sono 207 anni di storia “Noi siamo la razza dei vasai. Il ceppo dei vasai era di Massignano, un paese a 10 km da qui. Fu Domenico Peci – Nonno Mimì - il primo a trasferirsi a Ripatransone. Qui hanno lavorato mio Nonno, mio Padre ed il sottoscritto”.

Terracotta che narra storie di vita
Innocenzo Peci è felice di dedicarci il suo tempo, e ci mostra entusiasta il Museo del Vasaio. Il primo ambiente – dedicato al vasellame - conserva l’aspetto di una bottega artigiana, con al centro un tornio a pedale e lungo le pareti i pezzi – oltre 500 - disposti su mensole rustiche. Ci sono decine di tipologie morfologiche diverse. Il signor Peci le indica con una bacchetta e spiega pazientemente funzioni e caratteristiche peculiari di ognuna. Il racconto si arricchisce di suggestioni, perché ogni pezzo fornisce lo spunto per un piccolo affresco sui costumi e gli usi di una società rurale ed arcaica:
“Questa brocca serviva a mantenere l’acqua fresca. A Ripatransone avevamo più di 20 persone che la mattina andavano in campagna a lavorare la terra, con il somarello. La brocca con l’acqua la mettevano sotto terra, in modo che si manteneva fresca da bere. Per questo è senza vernice, in modo che respira”.
“Questa campana serviva al coltivatore. La massaia, quando era mezzogiorno, suonava la campana per avvertire che era ora di pranzo”.
“Questa brocca speciale serviva per bere acqua e limone. Era la bevanda usata quando c’era la mietitura, ed abbiamo cambiato il becco per fare uscire un pezzettino di limone”.
“Qui abbiamo i bracieri. Questo tipo qui lo usavano solo i signori, perché la povera gente non ce lo aveva: ci scaldavano i saloni. Quest’altro è da teatro: la perpetua lo preparava in modo che il signore se lo portava dietro. E questo è per dentro casa”.
La maggior parte dei pezzi sono realizzati da Innocenzo e dai suoi fratelli, ma ci sono anche i lavori del Nonno e del Bisnonno, fortunatamente conservati nella bottega attraverso i decenni come modelli. I nomi dei diversi oggetti ci appaiono spesso curiosi e pieni di suggestione: “la monaca”, “l’asso di coppe”, “le coccette della Maddalena”, e così via.

Generazioni di fischietti in mostra
Poi Innocenzo ci conduce nel secondo ambiente, dedicato interamente ai fischietti, che sono circa 600.
“Già 100 anni fa, il mio Bisnonno i fischietti li vendeva il 22 luglio alla festa patronale di Ripatransone. La mia famiglia vendeva anche fuori da Ripatransone, facevamo le fiere. I fischietti comunque erano una cosa annuale, si vendevano giusto per la festa della Maddalena. Oppure erano regali che si davano ai clienti, e facevano felici i loro figli.
Questi fischietti si fanno interamente a mano, il tornio non c’entra niente. Solo questo è fatto al tornio” (indica un classico fischietto ad acqua che riproduce un vaso in miniatura, con un uccellino sul bordo). [1]
Un grande elemento di fascino del museo è dato dalla possibilità di ripercorrere la storia delle diverse generazioni della famiglia Peci attraverso i loro fischietti. Ci sono infatti i pezzi di Domenico – bisnonno di Innocenzo - Emidio – il nonno - Antonio e Cesare – il padre e lo zio – e ovviamente quelli di Innocenzo e dei suoi fratelli. Al di là delle anche considerevoli differenze stilistiche tra questi artigiani – ben delineate da Vito Giovannelli nello studio “Fischietti in terracotta di Ripatransone e Massignano”[2] – salta agli occhi come vi sia uno stile comune della famiglia Peci, e come alcune tipologie morfologiche si siano mantenute pressoché invariate nei secoli. Ce lo conferma Innocenzo: “Le forme come il galletto o il fischietto ad acqua sono le stesse di una volta. Le facevano uguali 100 anni fa.” Così ad esempio alcuni animali o i carabinieri di Innocenzo ricordano molto quelli di suo Nonno e di suo Padre.
Le forme più comuni sono quelle del gallo - “simbolo ripano” secondo Innocenzo – del pesce appoggiato su una sorta di piedistallo, del cavallo, della campanella con o senza un uccellino in cima. Soprattutto del nonno Emidio esistono anche numerosi fischietti di soggetto religioso, raffiguranti madonne e santi. Al di là dei fischietti, una menzione a parte la meritano le pipe in terracotta di rara bellezza, produzione tradizionale importata da Massignano.
Innocenzo ripropone un po’ tutte queste forme tradizionali, ma si diverte anche ad innovare e creare per i suoi fischietti decine di tipologie morfologiche diverse e spesso bizzarre.
La decorazione dei fischietti
A vederli in fila sugli scaffali del museo, si direbbe che i fischietti di Innocenzo siano un omaggio ai colori della bandiera italiana. A parte i pezzi lasciati grezzi, prevalgono infatti decisamente le tonalità del verde, del rosso e del bianco. A volte il tricolore viene riprodotto addirittura sullo stesso fischietto.
Sono questi i colori prevalenti anche nella produzione delle precedenti generazioni di artigiani della famiglia Peci, con una colorazione che avveniva generalmente a freddo. L’artigiano ci racconta d’altronde che quando era giovane lui la gamma dei colori possibili era limitata, dato che erano gli stessi artigiani a fabbricarseli: “il verde si faceva con le scaglie del ramaio macinate. Per il marrone invece si andava dal fabbro e si prendeva il ferro. Bisognava conoscere bene le dosi. Ad esempio a 1 kg di rame si aggiungeva 1 kg di piombo già bruciato e 1 di arena. Ce ne voleva una speciale, non bastava una sabbia qualunque. Anche per il piombo bisognava sapere scegliere quello puro, perché c’era chi ti fregava. Insomma bisognava conoscere un pò la chimica”.
Un diverso stile di decorazione che Innocenzo ha ereditato dai suoi antenati - molto semplice ma che a noi sembra particolarmente suggestivo - è quello acromo ottenuto tramite graffiature fatte sul fischietto ancora crudo con chiodi ed altri utensili, ma anche con l’uso delle semplici unghie.

Anche suonare i fischietti è un’arte
Il signor Innocenzo oggi ha 87 anni, e parla con appena un filo di voce; quando prova i suoi fischietti, tuttavia, ne esce un suono forte e chiaro. Non sembri un esagerazione se diciamo che Innocenzo mostra di essere un Maestro non solo nel modellare, ma nel “dare voce” ai suoi pezzi. Ascoltando attentamente l’espressività dei suoni che i diversi pezzi emettono, ma anche le parole con cui ogni suono viene “spiegato”, ci si rende conto che Innocenzo “interpreta” i suoi personaggi d’argilla: “questa è una gallina vecchia, e fa un chicchirichì un po’ così; invece questo cavallo è più arzillo e fa un bel suono”. Possiamo anche testimoniare che dal fischietto ad acqua esce fuori un vero “assolo di usignoli” che solo polmoni esperti come i suoi sarebbero in grado di riprodurre.

La bottega storica di via Cuprense
Il locale dove è stato allestito il museo non è la bottega storica che i Peci gestirono a Ripatrasone per 143 anni, dal 1818 al 1961. Quando chiediamo notizie di quest’ultima, Innocenzo si mostra ancora una volta disponibile: “la vogliamo andare a vedere? Allora arriviamo qui a lì cuccià”. Questo nome non indica altro che la zona di Ripatransone dove si lavorava la terracotta, come ci spiega strada facendo il signor Peci: “questa si chiama la zona de lì cuccià, perché ci lavoravano i vasai. Quando ero giovane c’erano due botteghe. Una stava sopra a un torrione, e poi noi. Credo che anche gli altri fossero di Massignano, perché la razza dei vasai proviene tutta da li. Roba di forse 200 anni fa. Avranno chiuso la bottega da 20-30 anni”.
[3]
La zona dei vasai è a ridosso delle mura medievali di Ripatransone. Per raggiungerla dal centro del paese scendiamo alcune scalinate che in breve ci portano ad una antica porta d’accesso alla città; accanto a questa c’è la vecchia bottega di via Cuprense. Riconosciamo il luogo raffigurato in una suggestiva foto d’epoca che avevamo notato al museo. Vi si vedevano le mura, la porta, e sistemati per terra centinaia di vasi, brocche e altri articoli prodotti dalla bottega dei Peci.

La vista di questo luogo sembra suscitare in Innocenzo ricordi ancora più vivi della nostra chiacchierata al museo: “quante notti abbiamo passato qui al lavoro! Non saprei dire a che età ho cominciato a fare il vasaio. Ci son nato. In bottega lavoravano due fratelli: mio padre e mio zio. Alla preparazione dei pezzi ci pensava mio Padre, mentre Zio era l’artista, era quello che faceva ad esempio le brocche. Dovete sapere che non è affatto facile far venire la forma di una brocca di 20 litri. Devi lavorare con il braccio e badare che lo spessore sia quello giusto”.
Arriviamo davanti all’ingresso del laboratorio, che giace in un visibile stato di abbandono. Metà del portone di legno è divelto, e all’interno - tra la vegetazione che infesta la costruzione - si intravede un cortile ed oltre questo una struttura parzialmente diroccata.
Innocenzo ricostruisce come erano organizzati gli spazi nella bottega: “qui era l’ingresso, qui c’era il deposito della terra, qui mettevamo centinaia di fascine di legna. Di forni ne avevamo due, che sono dentro. Uno si usava per fare il biscotto – che non è quello che si magna, è la prima cottura dell’argilla! Il secondo per la seconda cottura, che si fa dopo la smaltatura”.
Nel museo avevamo visto anche un’altra foto d’epoca, che ritrae la fornace con dentro il vasellame accatastato ed incastrato in maniera da riempire tutto lo spazio disponibile. Evidentemente i Peci sapevano bene che alimentare per dei giorni interi il fuoco con le fascine di legna sarebbe costato fatica, e facevano in modo che ogni infornata fosse sfruttata al massimo.
Era un lavoro duro, ed anche pericoloso. Ad esempio l’ossido di piombo quando va in ebollizione butta il veleno. Mio Padre c’è morto. A 40 anni lasciò 4 figli a mia Madre. Ma che vuoi fa!
E poi quando ero giovanotto su questa discesa davanti alla bottega passava tutto il luridume di Ripatransone, il fosso. Tutta la roba dei gabinetti passava di qua, ma senza tubi”.
Il signor Peci è visibilmente amareggiato per lo stato in cui versa l’antica bottega: “Ora è un disastro, sarebbe bello recuperarla e farci un teatro, o magari anche un locale per bere. Ora è tutta proprietà del comune”. Non possiamo che essere d’accordo: la bottega di via Cuprense è un patrimonio importante per la città di Ripatransone, che andrebbe valorizzato.

Terra rossa e terra bianca
Passiamo oltre, uscendo dalle antiche mura di cinta; ancora oggi qui prevale un paesaggio rurale. Il signor Peci ci indica qualcosa: “qui a poche centinaia di metri c’erano le fonti. Ci venivano le donne a lavare i panni e ci andavamo anche noi a prendere l’acqua che serviva per lavorare.
Anche la terra la andavamo a prendere qui vicino, in quella direzione. Noi stiamo sopra l’argilla a Ripatransone! L’argilla che usavamo era diversa a seconda dell’uso. Qui c’era una qualità di terra rossa, buona per fare tutte le pentole da fuoco o gli scaldini. Contiene ferro, e si usa per tutti gli utensili che vanno a contatto con il fuoco.
Invece per quella bianca – che serviva per fare brocche e il resto - andavamo a due chilometri da qui. Quella è senza ferro, se fai un po’ così con la mano si sente la differenza.
A prendere l’argilla prima ci si andava con il somaro, poi abbiamo preso un cavallo; ricordo che si chiamava Giorgio.
Nel ’24 ci siamo comprati la 505 della Fiat e così ci siamo fatti il camion. Per fare le fiere prima si usava il cavallo, poi siamo stati i primi commercianti della provincia ad usare il camion. Non vendevamo solo le nostre cose, eravamo dei mezzi grossisti: noi facevamo i modelli base di piatti, mentre altri pezzi venivano dalla Lombardia, dalla Toscana. Facevamo venire i bicchieri dalla Toscana, i piatti da Mondovì, dove usavano una terraglia che costava meno”.

Dopo la chiusura dell’officina
E’ la signora Teresa, moglie di Innocenzo, a riassumere in poche parole i quasi 50 anni di vita passati da quando - nel 1961 - la bottega di via Cuprense chiuse i battenti.
“Abbiamo chiuso l’officina perché per varie ragioni i fratelli di Innocenzo si erano dedicati ad altro, e da soli non ce la facevamo a portare avanti l’attività. C’era l’occasione di gestire un ristorante e ci siamo detti: proviamo!
Poi nel 1978 abbiamo lasciato anche il ristorante perché i figli si erano fatti grandi ed avevano preso un’altra strada. Da soli per noi era faticoso gestirlo. Mettere del personale è una cosa diversa da gestire un locale famigliare, e non ce la si faceva. Il locale poi era di una banca, che lo rivoleva indietro. Allora ci siamo detti: sai che c’è? Lasciamo perdere!
Lui ha ripreso a fare il negoziante, aprendo un negozio di casalinghi. E poi è andato in pensione e si è dedicato di nuovo a fare il vasaio per passione”.
Chi ha provato la cucina del ristorante Sammagno giura che i Peci siano degli artisti anche come ristoratori. Ed anche in questo campo Innocenzo vanta importanti riconoscimenti e citazioni in prestigiose guide gastronomiche.

Oblio e riscoperta dei fischetti marchigiani
Nella sua accurata monografia,
Vito Giovannelli [4] nota come gli artigiani costruttori di fischietti delle Marche siano stati a lungo trascurati non solo dai cultori della ceramica artistica, ma persino da quegli studiosi che negli ultimi decenni del XX secolo si sono occupati di recuperare e valorizzare il patrimonio costituito dalla terracotta popolare e in particolare dai fischietti.
Nella mostra organizzata nel 1995 dal Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma – che insieme alla pubblicazione a questa collegata
[5] costituisce ancora oggi uno dei principali punti di riferimento per gli studi sul settore - i fischietti marchigiani furono rappresentati da soli 4 pezzi. Si trattava peraltro di fischietti acquisiti dal museo nel 1910, e nessun nuovo fischietto andò ad arricchire la collezione.[6] I ricercatori del Museo svolsero un prezioso lavoro di approfondimento della produzione residua di fischietti nelle diverse regioni italiane, ma purtroppo Ripatransone, Massignano e le intere Marche ne rimasero sostanzialmente escluse. Unico elemento di attenzione per gli artigiani ancora attivi fu costituito da un breve cenno a Innocenzo Peci, inserito in nota della pubblicazione.

A distanza di oltre 20 anni, possiamo dire che finalmente la tradizione artigianale della famiglia Peci, e più in generale la produzione di fischietti marchigiani, hanno ottenuto l’attenzione che gli competeva. Oggi Innocenzo Peci è meritatamente fra gli autori più conosciuti e amati da appassionati e collezionisti.
Vari fattori hanno contribuito al crescente interesse verso questa famiglia di artigiani.
In primo luogo i fischietti di Innocenzo hanno partecipato a numerose rassegne dedicate alla ceramica fischiante, distinguendosi per la loro bellezza ed aderenza alla tradizione, e guadagnandosi numerosi riconoscimenti. Per citare solo le manifestazioni più conosciute e prestigiose la rassegna di Caltagirone gli ha assegnato il Premio Parini, mentre la Biennale di Canove di Roana ha sottolineato il valore della sua produzione con menzioni speciali.
In secondo luogo ha contribuito a valorizzare i fischietti di Ripatransone il lavoro di ricerca di appassionati come Giovannelli, Barcaro e Brunetti.
[7]
Ma soprattutto, bisogna ringraziare l’ostinazione dello stesso Innocenzo, che per decenni si è speso per evitare che la memoria della tradizione artigianale dei vasai di Ripatransone e Massignano andasse perduta. Dal 1989 il signor Peci ha dato un contributo fondamentale alla nascita del Museo della Civiltà Contadina ed Artigiana di Ripatransone, donando molti pezzi per costituirne la collezione ed esercitando per anni l'attività di guida museale e di istruttore di una serie di corsi per la conservazione dell’arte dei vasai. Nel 1993 ha poi deciso di realizzare il museo del vasaio, utilizzando locali attigui alla propria abitazione privata.
Sua moglie ricorda: “Innocenzo ha contribuito a mettere su il museo della civiltà contadina e gli e ha dedicato tanto tempo. Poi non è andata bene perché a volte giovani e vecchi lavorano in maniera diversa. Allora ha pensato: ora il museo me lo faccio da me! Ha iniziato piano piano e lo costruito. Sono venute tante persone a visitarlo in questi anni, anche scolaresche. Fino a poco tempo fa lui si metteva alla ruota e faceva vedere a tutti come lavorano i vasai”.
Concorda anche Innocenzo: “E si, sono passate tutte le scuole d’Italia da questo museo!.”
Bibliografia e sitografia
Lo studio più accurato e completo sulla produzione marchigiana è il più volte citato “Vito Giovannelli, Fischietti in terracotta di Ripatransone e Massignano (Marche)”, Ed. Italica – Pescara, Sibilus Caltagirone, 2000. La presentazione è di Salvatore Cardello. Lo studio è purtroppo esaurito, ma un estratto riguardante il Museo del Vasaio è visibile sul sito web
http://web.tiscali.it/nuccicarlo/musei.htm. Il testo di Giovannelli è inoltre interamente riprodotto all’interno di Sibilus 4, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo Caltagirone, Caltagirone 2004. Alcune copie di questa pubblicazione sono ancora reperibili presso l’Azienda Autonoma.
E’ invece esaurito Sibilus 1, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo Caltagirone, Caltagirone 1993, contenente una breve nota su Innocenzo Peci all’interno dell’articolo di Marzia Barcaro e Mario Brunetti, La Terra che suona - brevi annotazioni su una collezione.

Un video che mostra Innocenzo Peci nel suo Museo del Vasaio è visibile sul sito
http://www.fergidmultimedia.it/intervista_a_innocenzo_peci.htmlù
Una scheda con informazioni biografiche ed un breve CV di Innocenzo Peci si trovano al sito
http://www.olivierilillo.it/ripa/peci.htm

Musei
Il Museo del Vasaio di Ripatransone è in via Garibaldi 42. Pezzi di Innocenzo Peci possono essere ammirati anche presso:
- la Mostra del Fischietto di Caltagirone (CT);
- il Museo della civiltà contadina ed artigiana di Ripatransone (AP);
- il Museo delle dei Fischietti e delle Pipe di Massignano (AP);
- il Museo dei Cuchi di Cesuna (VI).

Note
[1] Altra tecnica usata dalla famiglia Peci per modellare i fischietti – anche se meno di frequente - è quella dei calchi in gesso, come dimostrano alcuni stampi in mostra al museo del vasaio.
[2] Vito Giovannelli, Fischietti in terracotta di Ripatransone e Massignano (Marche)”, Ed. Italica – Pescara, Sibilus Caltagirone, 2000.
[3] Si tratta probabilmente della famiglia Mignini, che, come documentato da V. Giovannelli (op. cit.), avevano la fornace presso un torrione di guardia.
[4] V. Giovannelli, op.cit
[5] Paola Piangerelli (curatrice), La Terra il Fuoco, l’acqua, il soffio - la collezione di fischietti di terracotta del Museo delle Arti e Tradizioni popolari, Edizioni De Luca, 1995.
[6] Gli stessi 4 pezzi furono esposti nella storica mostra delle arti popolari organizzata sempre dal MATP del 1911. Da notare che a quell’epoca una circostanza fortuita contribuì a ridimensionare la collezione di fischietti marchigiani: una serie di altri pezzi acquistati per l’esposizione andarono smarriti durante la spedizione, o forse arrivarono in frantumi.
[7] V. Giovannelli, op. cit.; M. Barcaro e M. Brunetti, La Terra che suona - brevi annotazioni su una collezione, in Sibilus 1, Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo Caltagirone, Caltagirone 1993
Il testo e le foto sono proprietà di Massimiliano Trulli. Vietata la riproduzione

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