Memorie e Suoni di Terra - conversazioni
con i Maestri costruttori di ceramiche sonore
I Mastro di Grottaglie –
orgogliosamente “fischiettari”
Giovanni Mastro (foto Fam. Mastro) |
Per alcune famiglie la ceramica diventa
una ragione di vita, quasi come se generazione dopo generazione il padre trasmettesse
ai figli il legame con la terracotta insieme al corredo genetico. Ed è questo
il caso della famiglia Mastro.
Per provare a spiegare la forza
di questo legame bisogna anzitutto dire che sono ormai 4 le generazioni dei
Mastro che hanno dedicato la loro vita all’argilla. E c’entra molto anche Grottaglie
– città dove hanno vissuto e lavorato almeno dalla metà dell’800 – e che è in tutto
il mondo sinonimo di ceramica.
Eppure tutto questo appare ancora
riduttivo finchè non si parla con con Oronzo e Marcello Mastro – la quarta
generazione di ceramisti della famiglia. Solo sentendoli raccontare del proprio
lavoro o della storia della bottega di famiglia ci si rende conto dell’amore profondo
che li lega alla professione imparata fin da bambini dal proprio padre, o della
devozione con cui hanno conservato storie e cimeli di famiglia.
Questo non vuol dire che il
rapporto tra i Mastro e la terracotta sia stato fatto solo di soddisfazioni e
successi. Molti sono stati i momenti difficili, ma paradossalmente le avversità
sembrano avere solo rafforzato la passione dei Mastro per il loro mestiere. Tanto
che se si potessero riassumere due secoli di storia famigliare in una sola
parola questa sarebbe “caparbietà”: la caparbietà con cui ieri come oggi hanno
portato avanti la loro professione di fronte a tante difficoltà; e anche la
caparbietà – della quale gli appassionati di ceramica sonora devono essergli
particolarmente grati – di aver salvaguardato la produzione dei fischietti
anche nei decenni in cui a Grottaglie sembravano essere stati dimenticati da
tutti.
Dai fischietti della tradizione a quelli
artistici
E proprio dai
fischietti comincia il racconto di Oronzo, il più grande dei fratelli Mastro,
che ci racconta dei fischietti fatti dal Nonno – che si chiamava Oronzo come
lui - tra la fine dell’800 e la prima
metà del ‘900.”
“Abbiamo ancora gli stampi che usava mio
Nonno per i fischietti, stampi che erano fatti proprio da lui. I fischietti erano
i giocattoli dei bambini, li facevano per quello.
fischietto Oronzo Mastro (foto G. Croce) |
Per cuocerli si usava naturalmente la
fornace a legna. La cottura era a costo zero perché ci si riempiva una capasa –
i nostri contenitori rustici. Di solito
subivano una monocottura, e poi si dipingevano in maniera molto grossolana, non
erano rifiniti come oggi. Prevalentemente erano colorati con la calce, e magari
marmorizzati. Quindi li immergevano nella calce e poi gli schizzavano sopra un
po’ di rosso e di blu. Abbiamo recuperato un gatto colorato in questo modo.”
Molto legato alla produzione di fischietti fu
anche Giovanni Mastro, figlio di Oronzo. Si trattò anzi dell’unico artigiano di
Grottaglie a portare avanti questa tradizione nel periodo che va dal secondo
dopo guerra, momento della decadenza dei fischietti come giocattoli
tradizionali, fino alla loro riscoperta da parte dei collezionisti negli anni
‘80.
Oronzo Mastro: “Era l’unico a Grottaglie a fare i
fischietti. Tanto è vero che durante una riunione di ceramisti Papà prese la
parola per dire qualche cosa, e un suo collega ceramista lo tacitò dicendo: “citto
– ovvero zitto - fischiettaro!” Fu
chiamato “fischiettaro“ proprio perché era l’unico a livello di botteghe
ceramiche a fare questi fischietti.
Allora ci rimase amareggiato, dopo di che divennero tutti fischiettari!
E questo grazie a Carella, che inventò la rassegna di Ostuni.[1] E tutti si misero a
fare fischietti. A un certo punto tutti i clienti cercavano fischietti, e c’è
gente che ci si è fatta veramente i soldi. Ma facendo cose secondo me
obbrobriose: facendo queste cose ridondanti, prive di gusto, hanno snaturato
completamente i fischietti.
All’inizio comunque nessun altro sapeva fare bene i fischietti a
Grottaglie, tranne la mia famiglia. Tanto è vero che fu mio zio ad insegnare
materialmente a fare fischietti ai nostri concorrenti.
E per la verità fino al ’69-70 se ne facevano pochissimi nella bottega
dei fratelli Mastro, erano proprio un prodotto di nicchia: pochissima roba e
pochissimi soggetti.
Solo quando si sciolse la società con i fratelli e Papà si mise da solo,
allora riprese in grande la produzione. Quando a settembre facevano la mostra
della ceramica riusciva a vendere anche 1.000 fischietti in un mese, proprio perché era l’unico a farli. Allora
comunque avevano anche un costo irrisorio.”
Analogamente a buona parte dei fischietti
pugliesi, si trattava di pezzi modellati a stampo e poi generalmente dipinti a
freddo o lasciati grezzi. Anche i soggetti tradizionali non sono dissimili da
quelli del Salento o del barese.
Oronzo Mastro: “Molti soggetti, come il carabiniere e il marinaio,
servivano a sbeffeggiare il potere. Poi c’erano personaggi come il pulcinella,
il gobbo, il pancione e vari animali come il gallo ed il maialino.
C’era anche un’ocarina - anche se non era un’ocarina che poteva dare
molti suoni - e le trombe di San Pietro. Le facevano allora per San Pietro, il
29 giugno, e i ragazzini andavano in giro per Grottaglie a spernacchiare con
questi fischietti.”
Paola Piangerelli visitò la
bottega di Giovanni Mastro nell’ambito delle sue ricerche sui fischietti. Il
resoconto di questa visita è particolarmente prezioso, perché ci offre una
testimonianza dell’aspetto della bottega e delle tecniche di produzione dei
fischietti nel lontano 1974. Si riporta tra le altre cose come Giovanni
utilizzasse un bastoncino di legno da lui chiamato “mucculaturu” per modellare
la parte fischiante, e di come oltre ai fischietti di formato “classico” (12-14 cm ) producesse anche
carabinieri di dimensioni più grandi (22 cm ); da questi ultimi, che erano di fattura
più accurata, risaltava tutta l’abilità esecutiva del maestro. Vi sono inoltre
alcune notizie sulla commercializzazione dei fischietti, che avveniva tramite
intermediari in occasione di alcune fiere legate a feste religiose, come San
Cataldo e S. Francesco di Paola a Taranto, e per l’Ascenzione a
Oria (Brindisi).[2]
Rispetto a quella che è
probabilmente l’iconografia del fischietto più diffusa in assoluto – quella che
raffigura il carabiniere – Oronzo Mastro ricorda un aneddoto curioso:
fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi) |
“Tanti anni fa, durante la mostra della ceramica di Grottaglie, si
presentò da mio Padre questo tizio e disse: “siete lei il signor Mastro?” E Papà
rispose: “Si, sono io. Cè vuoi, Piccì?” E lui: “devo denunciarla per oltraggio
all’Arma”. Era un grottagliese che aveva visto i fischietti con i carabinieri e
si era scandalizzato. Si era anche comprato la prova del reato: arrivò in
bottega con dei fischietti e inizio a dire: “Lei ha messo il fischietto in quel
posto al carabiniere…”. E mio padre rispose: “Ascolta, se vai dai carabinieri, ne
trovi uno anche sul tavolo del maresciallo. E poi ho messo il fischietto in
culo ai balilla durante la guerra, per cui adesso non rompermi l’anima con
queste sciocchezze!“
Anche alcune donne della famiglia
Mastro – come la moglie Giovanni, Maria Blasi - contribuivano alla produzione
di fischietti. Lo testimonia ad esempio Mario Giani[3] – in
arte Clizia – nel resoconto della sua visita del 1995 alla bottega Mastro. In
quella occasione vi trovò delle casse piene dei
fischietti della Signora Mastro, raffiguranti in particolare la padrona
ed il padrone.
Anche il collezionista ed esperto
di fischietti Beppe Lo Bosco, esaminando i fischietti dell’epoca di Giovanni,
ha notato che il modulo sonoro sembra essere stato foggiato da due mani diverse
(trattandosi di pezzi fatti a stampo, il corpo principale dei fischietti è
ovviamente indistinguibile). E’ dunque
possibile che si tratti dei fischietti di Giovanni e della sua Signora.
I primi sono realizzati nel rispetto delle forme e delle
tecniche di un tempo. Spesso per produrli si utilizzano gli stampi d’epoca di
Giovanni Mastro:
Marcello Mastro: “Gli stampi di mio padre li ho usati
tantissime volte e iniziano ad essere logori. Devo decidermi a rifarli perché si
rischia che vadano perduti, e non mi va che questo accada!”
Poi vi sono dei fischietti di grande raffinatezza realizzati
con la tecnica del graffito – che d’altronde caratterizza buona parte della
produzione attuale della bottega Mastro. I soggetti sono spesso i medesimi
della tradizione – come le figure zoomorfe -
ma rielaborati secondo un design e una sensibilità moderna.
Per la verità, negli ultimi
decenni, Marcello ha limitato molto la produzione di fischietti. Dopo il boom
degli anni ’80-90 il mercato dei fischietti a Grottaglie si è infatti molto
inflazionato, e la qualità dei prodotti è scaduta. La scelta è stata dunque
quella di non scendere sul terreno di una competizione un po’ troppo al
ribasso.
Marcello Mastro: “Ho
smesso di fare i fischietti quando hanno iniziato tutti a farne di pessima
qualità. Ne faccio qualcuno ogni tanto, solo se me lo chiedono.”
La cocciuta conquista della bottega di famiglia
Fischietti a parte, nel corso
dell’ultimo secolo e mezzo i Mastro sono stati impegnati nello sforzo di conquistare
e poi difendere la propria autonomia produttiva. Un’impresa non facile se si pensa che Rosario Mastro, nato nel 1849
e trasferitosi a Grottaglie da Ceglie Messapica, era un umile operaio impiegato
come aiutante in una delle tante botteghe di vasai. Dalla loro parte i Mastro avevano
però un’abilità fuori dal comune – nomen
omen recita il proverbio latino - e una notevole dose di cocciutaggine.
Oronzo Mastro: “Mio Bisnonno iniziò a lavorare in una
bottega di ceramica, la
Arces. Praticamente era un semplice manovale. In gergo si
diceva “omo tà fori", uomo esterno inteso come addetto alle attività
collaterali. Ad esempio: prepare ed impastare la creta per i tornianti,
accudire gli oggetti già foggiati, ingobbiare, smaltare, cuocerei forni e così via.
I figli – perché aveva 3 figli questo Rosario - tutti e 3 divennero ceramisti. Uno praticamente è arrivato al suo livello, gli altri 2, mio nonno Oronzo e il mio prozio Cosimo, lo superarono: erano due mostri di bravura.
collaterali. Ad esempio: prepare ed impastare la creta per i tornianti,
accudire gli oggetti già foggiati, ingobbiare, smaltare, cuocerei forni e così via.
I figli – perché aveva 3 figli questo Rosario - tutti e 3 divennero ceramisti. Uno praticamente è arrivato al suo livello, gli altri 2, mio nonno Oronzo e il mio prozio Cosimo, lo superarono: erano due mostri di bravura.
Insegna della Bottega Mastro (foto G. Croce) |
Fu Oronzo Mastro – primogenito di
Rosario e vissuto dal 1875 al 1946 - a intraprendere questo percorso di
emancipazione produttiva. Oronzo si
dimostrò ben presto un ceramista brillante e completo. Le botteghe di
Grottaglie si contendevano le sue prestazioni di artigiano, ma la voglia di gestire
un’attività in proprio rappresentò una costante della sua vita. Perseguì questo
obiettivo con ostinata determinazione nonostante alcuni tentativi andati a
vuoto.
Oronzo Mastro: “Nonno era bravissimo, di una bravura estrema
sia nella modellatura che nel dipingere. Infatti durante gli anni ’20 vennero alcuni
giornalisti a visitare la bottega e lo chiamarono il “mago dell’argilla.”
Ha sempre avuto questo pallino delle botteghe. L’ha aperta e poi chiusa
tante volte perché era un grande maestro, ma un pessimo imprenditore. Però
aveva sempre questa grande, grandissima determinazione di mettere su bottega.
Lei pensi che ebbe l’incarico di insegnante ad Avellino, ma dopo due
anni si licenziò quando gli fu commissionato il rivestimento della cupola di
Villa Castelli. Questo sempre per la passione che aveva sempre di mettere su
bottega, e con 8 figli da mantenere ci voleva un gran coraggio!
Così nel ’23 - mi pare - se ne tornò da Avellino senza avere una bottega,
e in locali di fortuna ricominciò di
nuovo.
Nei periodi in cui non poteva permettersi di avere una bottega sua
andava a lavorare per gli altri. Ed era richiestissimo dagli altri ceramisti,
perché era competente in tutto. Tra l’altro, quando arrivava nelle botteghe
suscitava l’invidia dei vecchi operai, che dicevano: “a santo vecchio non si
appicciano cannele” – ovvero al santo vecchio non si accendono più lumini,
perché è arrivato un santo nuovo. Per tacitare appunto i colleghi invidiosi,
uno dei suoi datori di lavoro, Calò, mise sul suo tornio, quello dove lavorava
lui, un cartello con un proverbio che diceva “dove la stella brilla l’invidia
strilla”. Però il suo pallino era sempre di mettere su bottega. E quando poteva
ci provava.
Un’altra bottega la aprì nel quartiere della ceramica. Nessuno gli ha
mai venduto un pezzo di terra nel
quartiere per potersela costruire. E allora fino al ‘43, fino all’arrivo degli
americani, lui era in affitto presso la bottega Caretta. I proprietari, i Del
Monaco, lavoravano a Sesto Fiorentino e gli avevano affittato questa bottega
tutta intera. Se non chè, dopo l’8 settembre, visto che c’era molta richiesta
di piatti da parte degli americani, i proprietari se ne scesero giù. Cominciarono
a chieder indietro un pezzo di bottega e poi ad avanzare pretese sempre
maggiori per la questione degli spazi. Insomma praticamente lo costrinsero a
doversene andare via.”
Alla fine tanta perseveranza fu
premiata. Nel 1944, Oronzo Mastro aprì la bottega che avrebbe poi condotto il
figlio Giovanni, e dove attualmente lavorano i nipoti Marcello e Oronzo.
Non fu tuttavia possibile trovare
un terreno disponible nel quartiere delle ceramiche[4], e
Oronzo si risolse a costruire la bottega in località Antoglia, una zona periferica, attualmente Via Messapia. Si
trattò di una scelta forse obbligata, ma che avrebbe penalizzato la commercializzazione
dei prodotti della bottega Mastro, e questo a prescindere dalla loro indubbia
qualità.
Oronzo Mastro: “Quando Nonno costruì quà la bottega i figli
non erano molto d’accordo. Però lui aveva questa teoria: quando un ubriacone sa
dove sta il vino buono, anche se la cantina è distante ci va lo stesso. Si
sbagliava, e purtroppo ha pagato sempre questo scotto. Anche negli anni in cui
non c’era il turismo a Grottaglie, ma c’erano i compratori, era un evento che i
calabresi o i napoletani venissero fin qui a comprare le capase.
fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi) |
La maggior parte delle botteghe di Grottaglie erano molto
specialistiche: facevano per esempio piatti, oppure capasoni: quindi l’arte
faenzana oppure l’arte grossa, grossolana. Mio Nonno invece era in grado di
fare tutto. D’altronde dovevi fare tutto per sopravvivere: dall’orinatoio al
fischiettino.”
L’attività della bottega Mastro
fu proseguita dai figli Rosario, Cosimo e Giovanni. Tra loro Giovanni si rivelò
il più dotato: come il padre era un ceramista completo e raffinato. Dal 1969,
con lo scioglimento della società tra i fratelli Mastro, Giovanni prese in mano
le redini della bottega, conquistando una maggiore libertà espressiva e
riuscendo peraltro a dedicarsi maggiormente a produzioni da lui predilette come
presepi e fischietti.[5]
Oronzo Mastro: “Papà era un ceramista
completo. Sapeva fare tutto: dagli smalti, ai colori, alla modellatura a mano e
al tornio, al decoro.
Quando chiusero la società con i suoi fratelli tutti lo volevano come
lavorante, e per un certo periodo lo ha anche fatto. Però, come il Nonno, anche
lui voleva la sua bottega.
E’ morto a poco più di 60 anni. Ha tirato la vita coi denti, perché è
nato sofferente ed arrivare a quell’età è stata una lotta incredibile.
Quando è scomparso abbiamo messo via tutto quello che avevamo in
bottega di suo, non abbiamo venduto neanche più un pezzo. Sai quanta gente
venne a chiederci di vendere? Ma noi, pur nel bisogno, ci siamo sempre
rifiutati.”
Un mestiere massacrante
Il racconto di Oronzo Mastro ci
fornisce un affresco vivido riguardo alla durezza del mestiere degli operai
nelle botteghe artigiane. Avendo lavorato da ragazzino come apprendista nella
bottega del padre, ha fatto in tempo a conoscere la realtà di una bottega prima
dell’arrivo delle tecnologie, che ne hanno trasformato la natura ed hanno contribuito
ad alleviare la fatica degli artigiani.
“Era un lavoro massacrante, terrificante, credetemi. Specialmente per
gli operai, quelli di bassa lega. Ci si ammalava veramente di tutto. Voi
immaginate che lo smalto era a base di piombo, ed io ricordo che quando entravo
nella bottega dove era stata fatta la smaltatura, sentivo un sapore dolce in
gola. E questo era il minio, l’ossido di piombo. Ti penetrava dentro, e non
c’era un ceramista che avesse i denti suoi. Diventavano neri, venivano corrosi
da questo materiale. Il problema maggiore era quando bisognava pulire. Oggi si
usano le spugnatrici o altre cose, allora si puliva con uno straccio. Quindi tutti
si ammalavano di saturnismo, detta anche colica piombina.
Oppure ci si ammalava di silicosi. Perché quando l’argilla veniva
sminuzzata, questa bottega diventava un unico grande contenitore di polvere.
Quando avevo 11 anni ed imparavo a lavorare al tornio, ero a ridosso
del frangizolle. Mentre imparavo a fare questi salvadanai - 100 al giorno, 3 lire a salvadanaio - respiravo questa polvere. E ancora oggi se
respiro della polvere di creta mi fa male lo sterno. E c’è da dire che io ero un privilegiato, perché in bottega ci
lavoravo solo l’estate. Ma chi ci lavorava da una vita accumulava anno dopo anno
l’immissione nel corpo di queste sostanze.
Poi, immaginate le giornate intere passate davanti alla fornace estate
e inverno: l’estate ancora ancora, ma l’inverno, se dovevano fare un bisogno,
quei poveracci uscivano in strada tutti sudati. Quindi immaginatevi le
bronchiti che si prendevano!
Eppure c’è stato un operaio nostro, Cataldo, che era proprio una
“macchina da lavoro”, nel senso che non si è mai tirato indietro né dal
preparare la creta né dal fare le cotture. Oggi ha quasi 90 anni ed è ancora
vivo e vegeto.” [6]
Il rito della preparazione della creta
Particolarmente minuziosa ed
efficace è la descrizione che Oronzo Mastro fa del processo di preparazione
della creta. Lui stesso la definisce un “rito” e ne sottolinea gli aspetti più
suggestivi, come la “danza” a piedi nudi sulla creta da impastare o la
sacralità inviolabile del magazzino dell’argilla:
“La creta veniva cavata da Grottaglie e da Monte Mesola, queste erano
le grandi cave. L’argilla migliore era quella di Grottaglie, che è un filino
più pura. Quella di Monte Mesola invece è più abbondante ma più ricca di
impurità.
C’erano questi cavatori che si occupavano dell’estrazione. Ci si
rivolgeva a loro e venivano con i cavalli a portarci le zolle. A Grottaglie
c’erano delle cave a cielo aperto - dove non c’era pericolo - e altre cave a
miniera che erano pericolose. Purtroppo ogni tanto si verificava qualche crollo
e questa gente rimaneva sotto.
Una volta portata in bottega si metteva prima di tutto ad essiccare. Si
stendeva fuori sperando che non piovesse.
fischietto Fam. Mastro (Coll. Museo dei Cuchi) |
Poi veniva ritirata e immagazzinata in un posto che si chiamava la
palazza, che era sacro, quasi una basilica. Quando entravi dentro la palazza
dovevi entrare a piedi nudi o pulendosi perfettamente le scarpe, per non
importare in quel
luogo corpi estranei che avrebbero potuto inquinare o ferire le mani di chi andava a lavorare la creta.
luogo corpi estranei che avrebbero potuto inquinare o ferire le mani di chi andava a lavorare la creta.
Quando era tempo di preparare la creta si prendevano queste zolle
enormi e si spaccavano. C’erano due tipi di mazze: con le mazze grandi, quelle
proprio da lavori forzati, le zolle venivano sbriciolate grossolanamente; poi
gli operai si sedevano per terra con dei magli di legno e continuavano a
sbriciolare la creta fino ad avere una granulometria di dimensioni piccole come
quelle del brecciolino grosso.
Si prendeva questa roba macinata, si setacciava, e quello che usciva
fuori – che chiamavamo farina - si metteva da parte. Quello che rimaneva si
metteva a bagno in delle vasche e stava uno o due giorni a bagno finchè
l’argilla non si riempiva completamente di acqua.
Poi la creta veniva tirata fuori
da queste vasche e distribuita a terra come una sorta di ciambella. A questo
punto interveniva Cataldo, quel nostro operaio di cui ho detto e che oggi ha 90
anni. Danzando, girava con i piedi su questa ciambella una, due, tre volte.
Facendo questo lavoro, girando attorno, maciullava la creta. Ed era bellissimo,
sembrava veramente una danza della pioggia. Siccome la ciambella era troppo molle, man mano che
girava si addizionava quella farina che si era lasciata da parte.
Quando l’impasto raggiungeva una
buona omogeneità veniva presa questa ciambella, si tagliava a blocchi e veniva
passata
attraverso due cilindri che ruotavano in senso inverso. Questa operazione aveva
lo scopo di schiacciare i granuli che il calpestio non era riuscito a eliminare. A quel punto veniva fatta una massa unica di argilla.
attraverso due cilindri che ruotavano in senso inverso. Questa operazione aveva
lo scopo di schiacciare i granuli che il calpestio non era riuscito a eliminare. A quel punto veniva fatta una massa unica di argilla.
Il lavoro non era finito, bisognava ancora renderla uniforme, omogenea
alla lavorazione al tornio. Non ci dovevano essere pezzi più duri e più molli,
parti più secche e parti meno secche. Ma la massa non poteva essere lavorata
subito, perché doveva sedimentare. Le molecole erano tutte in agitazione, e
quindi la creta si sgretolava, si scagliava.
Solo dolo dopo 3, 4, 5 giorni si poteva ricominciare a lavorare. Allora
si prendeva un filo di ottone, si tagliavano i blocchi, si metteva la creta su
delle lastre di granito o di cemento, e la si impastava. Veniva prima lavorata
come se si facesse il pane, rivoltata, ribaltata. Dopo di che veniva sbattuta.
Si prendevano dei pezzi di creta e si scagliavano sul tavolo. Poi si staccavano
e si faceva di nuovo. E partivano schizzi dappertutto.
Alla fine si facevano delle palle di creta a seconda della grandezza dell’oggetto
da modellare. E lì cominciava la lavorazione al tornio.”
Ovviamente a Grottaglie, come
ovunque in Italia, il processo di modernizzazione dell’arte ceramica ha reso
obsoleti ed antieconomici questi procedimenti di preparazione e depurazione
dell’argilla.
Oronzo Mastro: “Fino a qualche tempo fa qualcuno ancora
usava la creta locale. La bottega Fasano ad esempio la mischiava con l’argilla
industriale.
Oggi questa creta non la usa più nessuno. Per lavorarla bisogna
raffinarla, e la spesa non vale l’impresa.
Se nella creta rimane un calcinello – che sarebbe una pietruzza di
solfato di calcio - durante la cottura
riaffiora e fa saltar via lo smalto.
Queste pietruzze le puoi eliminare con la setacciatura. Papà infatti
quando voleva fare qualche pezzo particolare portava l’argilla allo stato
liquido e la filtrava con dei setacci a maglie finissime. Tutto quello che era
corpo estraneo all’argilla rimaneva al di qua del setaccio, e quella che
filtrava la potevi lavorare con tranquillità. Però se tutta l’argilla tu
dovessi prepararla in quella maniera ci metti troppo, diventa antieconomico.
Ora la ceramica è un prodotto raffinato, se proponi un piatto a 200
euro non può esserci un calcinello che fa saltare un pezzo di smalto. Mentre se
una capasa ha un calcinello che è saltato chi se ne frega! Allora non erano così
sofistici.
Adesso invece la creta viene bella e pronta, in sacchetti da 25 kg da Montelupo o da San
Sepolcro. E quindi non c’è neanche più chi deve preparare la creta.”
La fornace a legna
Altrettanto affascinante è il
racconto di Oronzo sulla fase di cottura dei pezzi nella fornace. Un lavoro
durissimo, ma con alcuni momenti piacevoli e pieni di suggestione. Tra questi
ultimi il rito propiziatorio che chiudeva la fase della cottura, con
l’invocazione ai vari santi e alla Madonna.
“Per me l’arte del vasaio è il lavoro più incredibile del mondo, è
magia vera. Ed il clou del ciclo di lavorazione era la cottura, dove vedevi
questi pezzi veramente trasformarsi.
Quando si cuoceva un forno era bucolico e piacevole, almeno per certi
versi. Sentivi il profumo di frasche mediterranee, perché si bruciavano legni
nobili: di ulivo, di nocciolo, di mandorlo. Quindi sentivi un gradevolissimo
odore.
La fornace grande era proprio qui, dove stiamo parlando. Si vedono
ancora le pareti annerite. Chiaramente la fornace non era grande come questo
ambiente: le pareti dovevano essere coibentate, altrimenti il fuoco le avrebbe
divorate. E allora con dei materiali che si producevano sempre nella bottega -
dei vasi, dei cilindri - si facevano una serie di coibentazioni tra il muro e
la parete del forno. E poi lo stesso forno era costruito con i mattoni che si
producevano sempre in bottega.
fischietto di M. Blasi (Coll. Lo Bosco) |
Queste capase le abbiamo trovate nel muro: praticamente erano la
coibentazione del forno.
La prima cottura si iniziava la mattina e ci volevano 36 ore circa per
completarla. Ma questo forno era piccolo: c’era il forno di Fasano che era di 100 metri cubi , e la
cottura durava 4 giorni ininterrotti.
La seconda cottura avveniva in un forno più piccolo e quindi ci si
metteva meno tempo
Si facevano dei turni, ma per modo di dire: non è che si andava a casa.
La notte magari quando uno cedeva la pala all’altro si buttava in un angolo e
dormiva. Ma il giorno si andava a dare una mano in bottega. Quindi erano turni
davanti al focolare, ma poi si andava a buttare il sangue in bottega.
Il focolare era qui sotto. La mattina presto si veniva ad accendere un
piccolo fuoco. E ogni tanto si buttavano dei pezzi di legno belli grossi, non
di facile combustione. Finchè non si faceva un pavimento di brace. La temperatura
doveva salire lentamente, altrimenti uno shock termico poteva rompere tutto.
Quindi fino ai 3-400 gradi - ma era una
stima così, a intuito - si andava avanti in questo modo. Poi, a poco a poco si
cambiava tipo di combustione. E si alternava: una frasca, oppure fronde di
ulivo, a una palata di sansa.
Inizialmente si alimentava in maniera molto lenta, ma verso la fine
diventava un lavoro continuo, quasi parossistico.
Quando si buttava una palata di combustibile la si buttava in modo che
andasse su tutto il pavimento del focolare, per garantire sempre un’uniformità
di cottura. E mentesi faceva così, insieme alla palata entrava aria. E quindi in
un primo momento c’era un risucchio, e subito dopo un ritorno di fiamma. C’erano
queste lingue di fuoco che uscivano dal focolare e dai buchi del forno, e
l’operatore si doveva anche allontanare per non venire investito.
Il colore del fuoco nel focolare doveva essere uniforme. Se c’erano delle parti più scure voleva dire
che la temperatura non era uguale dappertutto. E allora si invitava chi buttava
palate di sansa a insistere un po’ su quella zona.
La stima della temperatura si faceva principalmente ad occhio. Per fare
questo c’erano delle toppe ai vari livelli della fornace che permettevano di spiare
dentro. La cottura avveniva quando dentro il colore del forno era di un
bell’arancio vivo, ed una volta che la temperatura era raggiunta nei vari livelli
queste toppe venivano chiuse. Rimanevano per ultime le toppe in alto, dove in
corrispondenza di queste fessure si mettevano i mostrini, dei cilindri di
argilla cavi e smaltati con delle pennellate di giallo rosso e verde. Inserendo
un ferro ad uncino dentro il forno veniva estratto questo mostrino, e si vedeva
se la temperatura era stata raggiunta. Se non era perfettamente lucido si
doveva dare ancora fuoco.
Quando tutto sembrava pronto magari si andava a chiamare qualche
collega di cui ci si fidava e si chiedeva un parere: “tu cè ne dice, siamo
arrivati?” A quel punto si chiudeva anche il focoale.
Oronzo Mastro: “E a questo punto iniziava la parte sacra della cosa, il rito
propiziatorio. Le ultime palate dovevano essere dedicate ai santi perché
proteggessero la cottura. E iniziavano le varie invocazioni a Santo Oronzo,
alla Madonna de lu Carmine, e così via. Noi bambini ci mettevamo tutti attorno
a dire all’operatore - che poteva essere Cataldo o Vituccio: “u nome mio, u
nome mio!” E l’ultima invocazione era “…e lu Signore cu la benedice!” Si
buttava quest’ultima palata, la frasca benedetta, e a questo punto si chiudeva
la toppa.
Non molto tempo dopo, spesso anche il giorno dopo, si iniziava a
riaprire il focolare. Perché non si poteva far si che la legna diventasse
cenere. Si doveva trasformare in carbonella e doveva essere venduta nelle case
per riscaldarsi. E allora veniva spenta la brace.
Quando ancora la temperatura non si era proprio abbassata, si
cominciava ad aprire anche sopra. C’erano un tasso di umidità e un calore
spaventosi, e gli operai entravano dentro a questo inferno con addosso un sacco
di iuta bagnato. E li si vedeva se si era stati bravi a condurre il fuoco.
Perché bastava poco per rovinare una cottura, e una cottura era il lavoro di
mesi! Bastava che si insistesse più su un punto perché in quella zona ci fosse
una temperatura altissima che scioglieva i vasi, li fondeva. Ed è successo
tante volte.
Io mi chiedevo: per la carbonella posso capire, ma i pezzi che stanno
nella parte sopra della fornace perché devono essere recuperati quando la
temperatura è ancora alta? Niente, così era, si cominciava subito. Anche perché
magari c’era il cliente che aspettava. E poi tanto non se ne fregava niente
nessuno della salute degli operai.”
L’autoproduzione degli smalti
Ovviamente le botteghe
provvedevano anche alla produzione degli smalti necessari a impermeabilizzare e
decorare le terrecotte.
Oronzo Mastro ci spiega come in
realtà non vi fosse uno smalto omogeneo da utilizzare indifferentemente per
tutti i pezzi. Anche per il secondo fuoco erano utilizzate infatti grandi
formaci a legna, al cui interno vi erano giocoforza zone con temperatura
disomogenea: questo rendeva necessaria la produzione di smalti con diversi
punti di fusione, a seconda della zona del forno dove erano collocati i pezzi
da smaltare. La preparazione e la scelta dei vari smalti richiedeva dunque una particolare abilità da
parte dei maestri.
Oronzo Mastro: “Gli smalti li facevano le botteghe stesse.
In bottega arrivavano i rottami di piombo che andavano calcinati in un
fornetto. La calcinatura avveniva tramite fusione e continuo movimento di
questa massa incandescente. Finchè praticamente le molecole si disgregavano e
diventava polvere.
Anche i rottami di ferro si calcificavano e quello era la base che
serve a fare il color miele, lo smalto miele.
Papà raccoglieva o i risultati della battitura del ferro, le piccole
scheggine, o i barattoli di conserva. Li schiacciavano e li mettevano nel
focolare, sotto.
Con i rottami di rame invece si faceva l’ossido di rame, per fare il
verde. E così via.
Ci voleva una grande maestria nel produrre smalti con diverso grado di
fusione. Perché essendo i forni così grandi, era impossibile che alla base e in
alto ci fosse nello stesso momento la stessa temperatura. Dovevi variare la
formula dello smalto a seconda dell’altezza degli oggetti nel forno. Quindi
alla base, dove il forno arrivava prima a temperatura ci voleva uno smalto più
refrattario. E invece in alto, dove arrivava la gradazione si raggiungeva alla
fine, uno smalto con un punto di fusione più basso. E in queste cose venivano
fuori le grandi capacità di chi allora aveva una bottega. Ora basta andare in
un deposito di smalti e ti compri tutto.”
A volte si utilizzava la tecnica dell’ingobbio, consistente
in un bagno di acqua e caolino nel quale venivano immersi i pezzi ancora crudi.
A questo scopo, il caolino veniva depurato e separato dal quarzo tramite un
procedimento che prevedeva una serie di lavaggi. [7]
Si tratta ancora una volta di
procedimenti oggi dimenticati da buona parte dei ceramisti moderni, anche se Marcello
Mastro ci rivela che la bottega Mastro fa ancora qualche concessione a
procedimenti di autoproduzione che teoricamente dovrebbero appartenere al
passato: “La cristallina la facciamo
ancora noi. Abbiamo provato qualche volta a usare quella che si acquista, e non
era la stessa cosa.”
Il “carattere” dei Maestri del passato
Come abbiamo visto, i fratelli
Mastro non idealizzano il passato della ceramica di Grottaglie, e mostrano di
essere ben coscienti di quanto insalubre e faticosa fosse la vita degli
artigiani di un tempo. Allo stesso tempo nelle loro parole è viva l’ammirazione
per l’abilità e la dignità dei maestri del passato, soprattutto rispetto ad un
presente dove troppo spesso la qualità è stata scalzata da un’attenzione
esasperata ai gusti del mercato turistico.
Oronzo Mastro: “Un tempo tutti facevano gli stessi oggetti
a Grottaglie: tutti facevano ad esempio gli struli, gli orci, le capase,
eccetera. Però quando vedevi un pezzo, tu capivi chi era il maestro che lo
aveva fatto. Lo capivi dalla forma, da impercettibili variazioni. E questo era
carattere.
Oggi invece c’è questo scopiazzamento generale, e tu non sai più chi ha
fatto cosa.
Salvo appena due o tre botteghe di questo paese, che continuano a fare
cose di qualità. Per il resto tutti si copiano a vicenda, ma senza
intelligenza. Pochi hanno ormai ha la capacità di fare cose di livello.
Appunto: non c’è più carattere.
Presente e futuro delle Ceramiche Mastro
Pur tra mille difficoltà la
bottega Mastro è rimasta una realtà produttiva attiva e che produce alcune
delle ceramiche più interessanti di Grottaglie. Vicissitudini della vita e
necessità economiche hanno portato i fratelli Mastro a dedicarsi anche ad altre
attività collaterali, ma senza mai
abbandonare il lavoro della bottega di famiglia. In questo Oronzo e Marcello
mostrano di essere simili a Padre e Nonno in quanto a tenacia.
Oronzo Mastro: “Mio Padre è morto il 16 settembre del 77,
quando io avevo 27 anni. Immaginate: io insegnavo a Novara,[8] e da allora ogni
momento libero arrivavo qua, riaprivo la bottega, e mi davo da fare: a Natale,
per i Morti, durante l’estate. La mattina stessa che ho sepolto mio Padre sono
venuto qua a lavorare. Da quel momento è diventato impellente lavorare in
bottega, sia per amore suo - perché non ho voluto che si perdesse questa
l’attività della bottega - che anche per
una questione economica. Il mio stipendio non poteva bastare per mantenere
tutta la famiglia. E tanto meno bastavano quei 2 soldi di pensione di mia
Madre.
Con questa bottega sono riuscito a sostenere la famiglia in quegli anni
difficili, e ancora adesso dò una mano a Marcello, mio fratello più piccolo.
Come è stato per mio Nonno e mio Padre, che hanno sempre fatto di tutto
per avere una propria bottega, anche per me oggi me è un punto d’onore
mantenere questa attività.
E qualche riconoscimento lo abbiamo avuto. Facciamo delle cose che - quando
la gente riesce a vederle - vengono apprezzate.”
fischietto di M. Mastro (foto G. Croce) |
I testi sono di Massimiliano Trulli
massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata
[1] Peppino Carella organizzò nel 1979 la I edizione di quella che fu la prima rassegna in
Italia dedicata ai fischietti in terracotta. L’iniziativa dette in questo modo
un contributo importante alla rinascita di interesse verso questa forma di artigianato
da parte di studiosi, appassionati, collezionisti. Dopo aver raggiunto un
crescente successo la rassegna si interruppe negli anni ’80, ma aprì la strada
ad altre manifestazioni di questo genere .
[2] La descrizione è contenuta
nella tesi di laurea di Paola Piangerelli dell’AA 1973-74 (pubblicata in
Sibilus 2, Agenzia Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, 1994). Anche
P. Piangerelli (cur.) , La Terra ,
il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del
Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Edizioni De Luca 1995
riprende – anche se in maniera meno diffusa – notizie su Giovanni Mastro e
pubblica le foto di numerosi fischietti acquisiti nel 1974.
[3] Clizia, “3 uomini in tenda, scorribanda appulo-lucana nel mondo dei
fischietti”, 1995. Si tratta di un volumetto ciclostilato e distribuito tra gli
appassionati di ceramiche fischianti dell’associazione Anemos.
[4] La celebre
zona delle botteghe di ceramica di Grottaglie è nota nel dialetto locale come “li
cammen’ri” – nome proveniente dalla presenza dei camini
delle fornaci.
[5] Oggi i pezzi di Giovanni
Mastro sono conservati in importanti musei e collezioni private come il Museo
Nazionale delle Arti e tradizioni popolari di Roma, il Museo delle Ceramiche di
Faenza, la collezione Majorana di Taranto.
[6] Citiamo volentieri alcuni tra gli operai che
lavorarono presso la bottega di Oronzo Mastro, come Mestu Linardo di Rozzlamuenici,
Francesco Magazzino ed Emanuele Patruno. Si veda “Francesco Mastro e Ciro
Logorio, “I Mastro, più di un secolo di tradizione”, testo che accompagnava la
mostra realizzata a dicembre 2000 http://digilander.libero.it/ciroarcad/camini/index_file/Page1571.htm.
[7] P. Piangerelli, op. cit.
[8] Oronzo è tutt’ora
professore di arte pittorica presso il Liceo Artistico Statale della città
piemontese.
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