Tra i Maestri delle botteghe di Cutrofiano e Ruffano, emergono alcune figure di particolare bravura, tanto da travalicare i confini dell’artigianato di qualità e da assurgere al rango di veri e propri artisti. Artisti popolari ovviamente, che non hanno mai avuto la possibilità di frequentare accademie e scuole d’arte, ma senz’altro in grado di realizzare pezzi unici di grande forza espressiva. A partire dagli anni ’70 – parallelamente alla riscoperta delle tradizioni popolari - studiosi ed appassionati hanno iniziato a interessarsi a questi Maestri, le cui opere fanno oggi bella mostra in molte collezioni private e pubbliche.
Vito De Donatis
Una di queste figure è senza dubbio Vito De Donatis, nato nel 1923. Forse la sintesi più efficace della sua personalità la esprimono queste parole di Claudia De Donatis, nipote di Vito e giovanissima artigiana figula: “Era un artigiano molto abile, ma questa dimensione gli stava stretta. Ha sempre avuto anche l’esigenza di esprimersi come artista.”
La caratura da artista di Vito De Donatis è stata riconosciuta da molti ceramologhi ed appassionati di arte popolare,[1] e nel 1997 il Gruppo Cucari Veneti volle tributargli un omaggio ospitando all’interno della propria esposizione annuale di ceramiche fischianti, realizzata a Nove (Vicenza), proprio i pezzi del Maestro di Cutrofiano e quelli di Luigi Toma. Ma la consacrazione del Maestro De Donatis dovrebbe essere rappresentata da una mostra personale in corso di preparazione ed a lui dedicata dal Museo Provinciale Castromediano di Lecce.
L’estro del maestro Vito si esprimeva soprattutto in sculture di terracotta anche di grandi dimensioni, non di rado fischianti.
Claudia De Donatis: “Ha sempre amato modellare fischietti e statuine, ma negli ultimi anni di vita ci si è dedicato ancora di più, anche perché per problemi di salute non riusciva più ad usare il tornio.”
Salvino De Donatis: “Negli ultimi 20 anni mio Padre si era dedicato interamente ai fischietti ed alle sculture di creta. Lavori che ha realizzato e portato avanti fino agli ultimi giorni. Conoscendolo non lo avrebbe mai cambiato ‘sto lavoro, non sarebbe mai stato capace a fare un’altra cosa neanche costretto sotto tortura
Ha cominciato con dei fischietti piccoli ispirati alle cose che faceva insieme a suo Padre. Poi ha iniziato a fare delle vere e proprie sculture.
E’ arrivato a fare anche pezzi di un metro di dimensione, realizzando degli oggetti che io veramente stentavo a credere che avrebbero potuto stare in piedi. Chi lavora con l’argilla sa benissimo quanto è difficile far sostenere i pezzi oltre una certa dimensione. Per sostenere queste strutture durante l’essiccazione si aiutava addirittura con dei pezzi di legno ed altri supporti.”
Lo stile del Maestro De Donatis è inconfondibile. Figure rigorose nella loro semplicità ed essenzialità, spesso allungate e stilizzate, ma in grado di comunicare con straordinaria immediatezza ed incisività stati d’animo e atteggiamenti dei personaggi da lui plasmati. Entrambe le caratteristiche - la semplicità e l’esilità delle forme - si sono accentuate nel corso della sua evoluzione artistica, quasi come se il Maestro aspirasse a raggiungere uno stile sempre più essenziale e puro e, proprio per questo, diretto e di grande impatto espressivo.
Salvino De Donatis: “Faceva delle figure molto esili ed allungate ultimamente. Addirittura c’erano delle figure lunghissime e che poggiavano solo su una base molto piccola. Se vogliamo poco realistiche, però molto espressive.
Secondo me con queste figure allungate era tornato alle origini, ai suoi ricordi d’infanzia. Infatti i modelli, le linee di cui lui mi parlava e che si producevano nella bottega di famiglia all’inizio erano proprio così: semplici, stilizzate. “
I soggetti delle sue sculture riprendono anzitutto temi della vita quotidiana: la famiglia, ma anche pastori e soldati. Frequenti sono anche i temi religiosi come santi e madonne, di solito privi di fischietto.
Salvino De Donatis: “La maggior parte dei soggetti erano figure umane. Oltre a qualche animaletto. Anche in questo caso lui ricordava molto queste figure che faceva da ragazzo, secondo me, con qualche elaborazione chiaramente.
Ha fatto tante figure con una serie di uccellini sopra. Gli piaceva fare i pastori, i pupi da presepe, anche se non c’era una tradizione di figure da presepe nella nostra famiglia. Ha fatto anche qualche soldato. Lui ricordava l’esperienza della guerra, ha perso anche un fratello che non è mai tornato dalla Russia.”
Claudia De Donatis: “Un soggetto ricorrente delle sue sculture era la famiglia, con queste mamme e papà con tanti figli in braccio e sulle spalle, quasi a simboleggiare l’affetto e l’unità del nucleo familiare.“
Oltre che nello stile della modellatura, buona parte del fascino delle sculture di Vito De Donatis risiede nell’uso degli smalti.
Salvino De Donatis: “Oltre a realizzare queste figure gli piaceva molto decorarle. Siccome gli piaceva moltissimo lo smalto, la maggior parte dei suoi fischietti sono tutti smaltati.
Spesso in questa decorazione utilizzava dei puntini, delle piccole linee…Un lavoro molto di pazienza, ma a lui non interessava quanto ci metteva a realizzare un oggetto. L'aspetto commerciale non gli interessava.
Ricordo che a volte avevo difficoltà nel cuocere i suoi pezzi - perché ovviamente io continuavo sempre a portare avanti il resto della produzione della bottega. E lui ogni tanto me lo rimproverava. Diceva: ma quando mi cuoci i lavori? Faceva pressione perché non lasciassi troppo indietro il suo lavoro, insomma!”
Le sculture del Maestro De Donatis rispondevano ad un’esigenza personale di ricerca artistica, che prescindeva da ogni intento commerciale e non si poneva il problema di andare incontro ai gusti del pubblico.
Salvino De Donatis: “Il prezzo di questi oggetti all’epoca, quando si vendevano, era sempre modesto. A parte che qualcuno lo regalava proprio, come se non valesse. Aveva una modestia che di questi tempi non esiste più. E poi lui aveva proprio il gusto di donarle queste cose. Perchè li faceva proprio per passione.”
Claudia De Donatis: “ Queste sculture e fischietti li faceva per passatempo, non immaginava che col passare del tempo potessero acquistare un grande valore. E purtroppo i maggiori riconoscimenti al suo lavoro sono arrivati dopo la sua morte, quando molti collezionisti ed appassionati di arte popolare hanno iniziato ad apprezzare e ricercare i suoi pezzi.”
Si rimane colpiti dal grande affetto verso Vito De Donatis che traspare dalle parole della sua famiglia. A oltre 10 anni dalla sua scomparsa Vito costituisce per loro un punto di riferimento da molti punti di vista, professionale, ma anche umano. La nipote Claudia, che all’epoca della sua scomparsa era appena una bambina, dice di lui: “Sono rimasta molto attaccata a mio Nonno. Forse è per il modo in cui si lavorava e si viveva in famiglia: eravamo sempre insieme e condividevamo tutto. E poi Nonno era molto attaccato alla famiglia, ci teneva moltissimo.”
La famiglia De Donatis possiede una splendida collezione di sculture del Maestro Vito, ma nonostante il valore di questi pezzi, la scelta fatta è quella di non sfruttarli a fini commericiali:
Salvino De Donatis: “Questi sono tutti fischietti suoi. Diciamo che è la nostra collezione di famiglia. Soprattutto mia figlia Claudia ha insistito per non commercializzarli. Ora sono difficili da vedere perché sono tutti ammassati in questo angolo, ma un giorno contiamo di realizzare uno spazio espositivo tutto per lui.”
Per i pezzi lasciati a metà dal Maestro perchè ancora da cuocere o smaltare, la scelta fatta è stata quella di portarli a termine ma rispettandone al massimo lo stile.
Salvino De Donatis: “Li abbiamo cotti e smaltati anche dopo la sua scomparsa. E’ rimasto ancora qualche pezzo grezzo, che ancora conto di smaltare e di cuocere. Di solito faccio una smaltatura semplice, bianca, senza intervenire con i colori che lui usava. Cerco di non alterare troppo i suoi pezzi e di rispettarne lo spirito. Però siccome a lui piaceva lo smalto, li smalto e di lascio così, bianchi.”
Serafino ed Alessandro Manco
Più d’una generazione della famiglia Manco si è distinta per la raffinatezza dei suoi fischietti e dei pupi da presepe, una raffinatezza legata sia alla loro abilità di modellatori che di decoratori.
Già negli anni ’80 il più noto e apprezzato Maestro di fischietti in terracotta dell’intero Salento era probabilmente Serafino Manco, e negli ultimi decenni il figlio Alessandro ne ha ereditato la fama, conservandola fino alla sua recente scomparsa.
Peppino Carella, uno dei maggiori esperti e fautori del rilancio della ceramica sonora, racconta di come il suo innamoramento con i fischietti sia legato ad una visita alla bottega dei Manco. Nel corso degli anni ’50 e ‘60 la produzione di fischietti in Puglia ed in tutta Italia era progressivamente quasi cessata, e in larga parte se ne era persa anche la memoria; in una società affamata di modernità, i giocattoli in plastica e altri prodotti di tipo industriale avevano sostituito il fischietto popolare come oggetto del desiderio di bambini e adulti.
Fu nel 1976 che il Signor Carella – che aveva una attività di commerciante nel campo della ceramica - visitando Cutrofiano, notò nella bottega dei Manco alcuni galletti di terracotta con le piume vere; erano i fischietti realizzati da Severino, già anziano, insieme ai figli. Ne fu affascinato, e chiese notizie su questi curiosi oggetti. Il Maestro gli spiegò che continuava a produrli e portarli nelle fiere più per abitudine che per convenienza, dato che ormai erano ben poco richiesti.
Se è possibile individuare un momento iniziale nel processo di riscoperta e valorizzazione del fischietto pugliese, fu probabilmente questo. Nella mente di Peppino Carella si accese una scintilla; ordinò a Severino Manco alcune centinaia di fischietti, e verificò che riscuotevano un certo interesse verso un pubblico diverso e più colto da quello delle fiere paesane. Di li a poco iniziò una ricerca che lo portò a rintracciare gli altri produttori di fischietti presenti sul territorio pugliese e in tutta Italia, fino a realizzare ad Ostuni la sua fortunata Mostra Mercato del Fischietto.
Ma Serafino Manco non è stato solamente il caparbio custode di un’antica tradizione produttiva, ma anche un autore in grado di innovare profondamente il fischietto con la sua fantasia e abilità di modellatore e decoratore. Come abbiamo già accennato, fu lui nel secondo dopoguerra uno dei primi produttori ad andare oltre le tipologie classiche di fischietti salentini, introducendo nuovi soggetti, di fattura più raffinata. Presso un maestro figurinaio imparò la lavorazione a stampo e da allora inizio a produrre una grande varietà di fischietti ispirati a personaggi della vita quotidiana ritratti con bonaria ironia, anche per l’apposizione del fischietto all’altezza delle terga.[2]
La sua bottega prese inoltre a realizzare anche pupi da presepe altrettanto raffinati, sempre a stampo.
Forse al Maestro Serafino si deve l’invenzione di un tipo di fischietto che diverrà poi una caratteristica della bottega dei Manco. Si tratta di personaggi con la testa unita al collo da una sottile molla di metallo, in modo da creare a ogni minimo movimento un effetto di oscillazione particolarmente efficace nell’attirare bambini ed altri compratori nelle fiere.
Racconta il figlio Alessandro: “Questi fischietti con la testa che si muove li faceva già mio Padre. Dopo avere fatto il fischietto con lo stampo, si fa un buchettino sul collo, si mette una molla fatta arrotolando il fil di ferro, e poi si inserisce su la testa. Il ferro va inserito prima della cottura, e si mette in forno il fischietto tutto intero. Dopo la cottura il ferro diventa un po’ più sottile e la testa si muove meglio.”
Dopo la scomparsa di Serafino, i figli continuarono nel solco della tradizione produttiva di famiglia. Con il crescere di interesse verso i fischietti ed i pupi da presepe tradizionali, i fratelli Manco si dedicarono a tempo pieno a questa produzione, abbandonando l’attività di vasai e stovigliai.
Alessandro Manco acquistò particolare fama non solo per la produzione dei fischietti a stampo, ma di pezzi unici di notevole bellezza e a volte anche di grandi dimensioni. Noti sono ad esempio i suoi grandi galli, una elegante rielaborazione dei classici galletti salentini.
Vito De Carlo ci racconta di Alessandro, come uno dei Maestri pugliesi più raffinati ed eleganti: “Era molto lezioso, sia per quanto riguarda le forme che per la decorazione. Faceva cose molto elaborate, molto raffinate. E poi usava colori non troppo marcati, ma piuttosto tenui: colori mediterranei, come il rosa chiaro o il celeste sul bianco. Era una decorazione molto delicata.
Caratterialmente era una persona dolce e piacevole, di una riservatezza infinita.”
Luigi e Armando Toma
I fischietti di Luigi ed Armando Toma erano stilisticamente molto diversi sia dai pezzi dei Manco che da quelli di Vito De Donatis. Il modellato e l’uso dei colori di questi due fratelli di Torrepaduli (Ruffano) erano senz’altro meno raffinati e più istintivi, ma non per questo i loro pezzi erano dotati di minore forza di suggestione. La loro fama si deve anzi proprio alla grande forza espressiva dei loro fischietti genuinamente naif.
Tutti coloro che hanno avuto modo di conoscerli sottolineano come i due fratelli fossero molto diversi sia dal punto di vista caratteriale che per aspetto fisico.
Beppe Lo Bosco, appassionato e collezionista di ceramica fischiante che ha avuto modo di conoscere in maniera piuttosto approfondita i fratelli Toma, dice di loro: “Fisicamente, ma anche come carattere, erano uno il contrario dell’altro: Luigi piccolo e minuto, di poche parole; Armando un omaccione con una faccia rossa e più esuberante.”
Conferma Vito De Carlo: “Luigi era molto riservato, non è che si aprisse facilmente. Armando era molto più estroverso e a parere mio anche più intraprendente. Il fatto che collezionisti e commercianti si interessassero al suo lavoro gli fece capire che evidentemente quello che faceva aveva un valore.”
Il mestiere di Luigi Toma era quello di realizzare al tornio tegami da cucina. Le testimonianze concordano sul fatto che si trattava di tegami di ottima fattura.
Per quanto riguarda i fischietti, i suoi soggetti più noti corrispondono a quelli tradizionali del Salento: il cavallo a tre zampe, il carabiniere (con e senza cavallo), il cane ed altri mammiferi sempre rigorosamente a tre zampe, l’uccellino sul piedistallo, la pupa con le gambe sproporzionatamente lunghe e l’ampia gonna a campana realizzata al tornio.[3] Luigi dava tuttavia a questi soggetti una interpretazione personale ed inconfondibile, modellandoli in maniera molto essenziale, quasi ingenua.
Vito De Carlo: “Quando l’ho conosciuto - parlo di 25 anni fa - Luigi Toma era rimasto uno dei pochissimi che faceva ancora fischietti tradizionali come il carabiniere sul cavallo. All’epoca faceva solo 4 o 5 modelli di fischietti, non andava oltre. Poi quando c’è stata l’esplosione del fischietto ha iniziato a fare una serie di altri personaggi. Era apprezzato da molti appassionati, che glie ne facevano fare – e ne collezionavano - tantissimi.
Secondo me fare i fischietti rimaneva per lui un fatto prettamente di gioco. Sicuramente poi fu un po’ pressato da questa richiesta di collezionisti e di appassionati, ma probabilmente anche allora ne faceva un numero maggiore ma con lo stesso spirito giocoso.” Ed in effetti, nonostante il suo successo crescente tra gli appassionati, probabilmente Luigi non si rese mai conto in pieno del valore e della dignità artistica dei lavori che realizzava. I prezzi dei suoi fischietti, anche quelli di maggiori dimensioni, erano infatti estremamente contenuti.
Parte del fascino e della forza espressiva dei fischietti di Luigi Toma vanno attribuiti - oltre che al suo stile minimalista - alla materia prima da lui usata: una creta colta dallo stesso artigiano e da lui depurata in maniera sommaria. Anche il metodo di cottura molto rustico contribuiva a dare ai pezzi una colorazione particolare. Nel loro insieme, tutti questi elementi donavano ai fischietti di Luigi Toma il fascino dell’oggetto arcaico e fuori dal tempo.
Beppe Lo Bosco: “La creta che lui cavava da solo era così impura che spesso sul pezzo finito noti il brillante del ferro, oppure l’emergere di una pietruzza di calce.
All’inizio usava una terra diversa, ancora più sporca e più scura. Poi qualcuno deve avergli detto che non andava bene per il mercato, e lui ha fatto uno sforzo per raffinarla maggiormente.
Non aveva un forno suo. Forse qualche volta usava anche il forno di altri, ma di solito cuoceva i pezzi in campagna, dentro un bidone di ferro. Con questa tecnica i pezzi a volte venivano mezzi bruciati, con un effetto affascinate.”
Nella maggior parte dei casi i pezzi di Luigi Toma non venivano colorati affatto, lasciando così a vista questa creta di consistenza e colore così suggestivi. Spesso, la decorazione dei pezzi era costituita - più che dai colori - da sommari solchi nella creta che simboleggiavano il piumaggio di un uccello. Altre volte dei fori rappresentavano occhi e bottoni di un personaggio. Ma il principale metodo per decorare e arricchire i pezzi era forse l’uso di un comune filo di metallo, con il quale Luigi Toma aggiungeva al cappello del carabiniere il pennacchio, inseriva un uccellino un piedistallo, costruiva le ruote di un carretto, e così via.
Tuttavia, succedeva occasionalmente che Luigi colorasse i suoi pezzi, sempre in maniera molto essenziale: di solito stendeva sui pezzi un fondo monocromatico sopra al quale venivano a volte evidenziati dei particolari con sommarie pennellate di colore diverso, altre volte disegnati semplicemente dei tratti e dei puntini.
Secondo alcune testimonianze, più che a una scelta stilistica la decisione di colorare o meno un pezzo dipendeva dalla occasionale disponibilità di vernici.
Beppe Lo Bosco: “Quando qualche amico muratore gli regalava dei colori avanzati allora colorava i pezzi.
Ad esempio il rosa è proprio quello delle masserie pugliesi. Si limitava a colorarli tutti di rosa, azzurro, giallo, verde. A volte poi colorava con un colore più scuro dei particolari come la cresta, le ali e il becco dell’uccellino, o semplicemente tracciava sui pezzi dei tratti e dei puntini. Ho provato a fare degli esperimenti, decorando i suoi pezzi grezzi con colori diversi e in maniera più raffinata. Ma l’effetto è molto meno affascinante, decisamente non convincono altrettanto.”
Lo stesso Luigi fornisce un’interpretazione alternativa del perché decorava solo alcuni fischietti: “Quando cuocevo i fischietti spesso ce n’erano uno o due che venivano fuori dal forno sporchi, e allora li dovevo pitturare.”
Alcuni aspetti pittoreschi del modo di essere e di lavorare di Luigi Toma contribuirono probabilmente ad accrescere la sua fama, incuriosendo gli appassionati di fischietti e a creando attorno a lui un’aura quasi di leggenda. Ad esempio, i racconti di chi lo ha conosciuto rimarcano spesso la strambezza e l’allegra confusione della rimessa che aveva adibito a laboratorio e del furgoncino che utilizzava per la vendita dei pezzi.
Vito De Carlo: “La prima volta che lo vidi fu una immagine spettacolare. Veniva da un mercatino con questo carrozzino modello Ape a tre ruote con tutte le sue pentole appese. Quando arrivava sentivi prima un gran frastuono di pentolame: “tititin - tititin”; poi arrivava l’Ape carica di tutte queste stoviglie appese. D’altronde doveva tenere tutto a vista, perché poi nei mercati non è che lui esponesse la merce su un banchetto: li vendeva direttamente sul carretto. Era una cosa davvero folcloristica!”
Il collezionista Paolo Loforti, che lo andò a trovare nei primi anni ’90,[4] descrive invece l’ambiente da lui adibito contemporaneamente a laboratorio, magazzino, rivendita, garage per l’Ape: fischietti e altre ceramiche traboccavano su grandi mensoloni, nel furgoncino, dentro casse sparse lungo i muri.
Beppe Lo Bosco: “Una volta siamo arrivati di domenica e lui aveva addosso l’abito buono, quello della festa. Per mostrarci come lavorava si mise al tornio, ma senza togliersi quell’abito. Si mise semplicemente una parannanza e infilò una sola scarpa da lavoro, quella che poggiava sul pedale, mentre all’altro piede aveva la scarpa lucida.”
Vito De Carlo: “Una cosa affascinante di Luigi Toma che io non ho mai visto in nessun’altra bottega era questo arnese che utilizzava per impastare l’argilla. Lui andava per i campi, prendeva questi sassi di creta, li metteva in questa specie di catino di ferro con una ruota che girando macinava, schiacciava queste pietre di creta, poi lui aggiungeva un po’ d’acqua e faceva la creta. Ed ecco il motivo per cui il colore dei suoi pezzi non è mai uniforme. Perché non usava una creta pura.”
Armando Toma, fratello minore di Luigi, è tra i due quello che ha raggiunto una minore notorietà, anche a causa della sua prematura scomparsa.
A differenza di Luigi, Armando non ha lavorato tutta la vita come figulo, ed anche quando sull’onda della ripresa di interesse verso i fischietti in terracotta ricominciò a fabbricarne, non risulta che abbia mai realizzato tegami o altri oggetti al tornio.
Vito De Carlo: “A differenza di Luigi, il fratello Armando ha ripreso a fare il fischietto, non lo ha fatto tutta la vita. Forse li ha fatti da bambino insieme al fratello, però poi ha ripreso a fare i fischietti quando ha cominciato ad esserci la richiesta del mercato.”
La produzione dei due Maestri aveva importanti punti di contatto – i soggetti erano grosso modo analoghi e si individuano caratteristiche comuni nella maniera di modellare – ma anche non poche differenze.
Beppe Lo Bosco: “Armando era più raffinato sia nella modellatura che nella decorazione. Luigi era forse più espressivo, ma non era ad esempio tecnicamente in grado di fare cavalli alti come quelli di Armando.”
A differenza di Luigi, Armando faceva della decorazione uno dei punti di forza dei suoi fischietti, applicando a freddo ai suoi pezzi una gamma di colori vivacissima.
Beppe Lo Bosco: “Gli accostamenti di colori di Armando a volte sono un pugno nell’occhio, ma sorprendono per espressività e vivacità.”
I pezzi più famosi di Armando Toma sono i cavalli a tre zampe, ma anche i galletti, i carabinieri, e una folta schiera di personaggi antropomorfi e zoomorfi.
Vito De Carlo: “Ovviamente i suoi pezzi più famosi sono questi cavalli molto snelli, anche di grandi dimensioni. Quando l’ho conosciuto, attorno all’87, lui partecipava alla fiera di Taviano. La prima settimana di settembre fanno questa fiera inerente la ceramica e lui con un suo banchetto vendeva questi cavalli. Probabilmente i fischietti li faceva per quell’occasione, ma non come lavoro continuativo.
Mi confidò che c’erano degli architetti milanesi che gli ordinavano una grande quantità di cavalli, e non sapeva neanche lui il perché. Poi abbiamo capito che li rivendevano come oggetto d’arredamento per le case della borghesia colta del Nord Italia.
Ma cavalli a parte aveva una gamma di soggetti infinita. Faceva anche dei fiori molto belli con cui decorava i pezzi”
Come accaduto per Vito De Donatis, anche i fratelli Toma ottennero un importante riconoscimento tributato loro dal Gruppo Cucari Veneti. La mostra di ceramiche fischianti organizzata a Nove nel 1997 vide infatti Luigi Toma e i suoi fischietti come ospiti d’onore, mentre nel 1998 fu il turno di Armando.
NOTE
[1] Ne hanno parlato ad esempio Mario Giani, “Vito De Donatis, artigiano e artista cutrofianese”, in Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n° 4/5, Ed. Congedo, Galatina, 2.000.; Alfredo Liguori, op. cit, e Paolo Loforti “A caccia di Fischietti – cronache di un collezionista”, in Sibilus 4, Agenzia Autonoma di Soggiorno e Turismo di Caltagirone, 2004.
[2] P. Piangerelli e F. Sgrò, “Puglia”, in Paola Piangerelli (cur.), La Terra, il fuoco, l’acqua, il soffio, la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari a MNATP, Edizioni De Luca 1995.
[3] Curiosamente manca tra i suoi pezzi il gallo; realizzava invece occasionalmente le trombette dritte e ritorte, modellandole al tornio.
[4] Paolo Loforti, op. cit.
FOTO
1. Cavalli a tre zampe di Armando e Luigi Toma
4. Severino Manco (foto d'epoca)
5. Alessandro Manco (foto Lo Bosco)
6. Armando Toma (foto Lo Bosco)
7. e 8. Fischietti di Armando Toma (coll. Lo Bosco)
Nessun commento:
Posta un commento