Memorie e Suoni di Terra - conversazioni
con i Maestri costruttori di ceramiche sonore
fischietti di Giuseppe d'Amore (coll. Grosso) |
“Ricordo che da bambini aiutavamo i ceramisti quando facevano i boccali
di San Rocco. Facevamo una specie di catena di montaggio per metterli fuori dalle
botteghe ad asciugare, e poi la sera li rimettevamo dentro. Ed alla fine i
ceramisti ci davano un fischietto, altre volte 10 lire, o magari un frutto. A
pensarci erano abbastanza taccagni! Ma noi lo facevamo comunque volentieri,
perché si trattava soprattutto di un gioco.”
Sono i ricordi di infanzia di Cesare
Grosso. Le sue parole testimoniamo come ancora negli anni ’50 del secolo scorso
Rapino fosse un vivace centro di produzione di ceramiche popolari e
fischietti.
fischietti.
Le botteghe ceramiche di questo paese
in provincia di Chieti cominciarono la loro produzione verso la metà del XIX
secolo, ed erano già in fase di declino nella seconda metà del XX. Una storia
produttiva relativamente breve, eppure poco più di 100 anni erano stati
sufficienti a farne uno dei centri di eccellenza per quanto riguarda la
ceramica abruzzese, secondo per fama solo a Castelli.
Per ricostruire la vicenda di
queste botteghe ci siamo rivolti a due persone che la conoscono molto bene: Amato
Bontempo - ultimo discendente di una delle più importanti dinastie di
produttori locali – e Cesare Grosso – grande appassionato ed esperto di
ceramiche e fischietti rapinesi.
Bontempo: “La ceramica fu portata a Rapino da uno dei Cappelletti, la nota
famiglia di ceramisti abruzzesi. Si trasferì a Rapino e cominciò a fare
ceramica ai primi dell’800. Di li sono nate diverse botteghe di ceramisti.[1]
Le famiglie principali di artigiani eravamo noi Bontempo, i Bozzelli, i
Vitacolonna, i De Nardis. Tutte famiglie con relativi parenti e discendenti. I
Bozzelli furono i primi: aprirono la bottega qualche anno prima di noi. Subito
dopo arrivarono i Bontempo. Peraltro noi e i Bozzelli eravamo parenti. Tanto è
vero che le botteghe erano attigue e c’erano degli ottimi rapporti.”
Grosso: “C’erano tre grosse famiglie di ceramisti: i Vitacolonna, i Bontempo e
i Bozzelli. Anche i De Nardis hanno fatto ceramica per 2 o 3 generazioni. E poi
si sono state tante altre botteghe che erano per lo più create da ex dipendenti
di queste famiglie che si erano messi in proprio.”
Bontempo: “La famiglia Bontempo ha 150 anni di tradizione nella ceramica.[2] Il capostipite è stato
mio Bisnonno. Si chiamava Bontempo Lorenzo, e fondò la bottega nel 1862. Dopo
la morte di Lorenzo proseguì l’attività il figlio Giuseppe, che sarebbe mio
Nonno. Poi ci sono stati mio Padre Andrea – che era cavaliere del lavoro - con
gli zii Lorenzo e Alfredo. La mia è la quarta generazione.”
La produzione di queste botteghe
era in bilico tra ceramica di uso comune - destinata ai ceti popolari - e
raffinata – ricercata della borghesia
agiata.
Bontempo: “Mio Bisnonno inizialmente faceva le stoviglierie, quelle da fuoco.
Poi piano piano, alla fine della sua attività, cominciarono a fare la maiolica,
la ceramica smaltata.
Si faceva anche ceramica raffinata a Rapino. In Abruzzo era il centro
ceramico più rinomato dopo Castelli.”
fischietto di Renato di Federico (coll. Grosso) |
I Bozzelli hanno avuto Raffaele Bozzelli, che sia dal punto di vista
decorativo sia per la foggiatura è stato uno dei più bravi ceramisti di Rapino,
se non il più bravo in assoluto. I Vitacolonna hanno avuto Antonino e Fedele,
mentre da parte dei Bontempo il più bravo è stato Alfredo, che ha lasciato la
ceramica prima della guerra ma ha continuato a livello hobbistico.”
Rispetto alla ceramica popolare,
il prodotto-simbolo di Rapino è senza dubbio la brocca di San Rocco. Queste
brocche venivano vendute durante la festa dedicata al santo che si teneva presso
la chiesa campestre di Roccamontepiano, e si trattava di una delle principali
occasioni di guadagno per le botteghe di ceramisti.
Grosso: “Il 30% della produzione ceramica -
forse di più - era costituita dai boccali con l’immagine devozionale di
San Rocco da vendere per la festa contadina che si teneva ogni anno a
Roccamontepiano. Tutti i ceramisti ne producevano migliaia, e lavoravano una
buona parte dell’inverno per prepararsi a questa festa.”
Bontempo: “C’era una festa importante a Roccamontepiano, in provincia di Chieti. E’
la festa di San Rocco, che viene festeggiata il 15 e 16 di agosto. E lì
andavano i ceramisti di Rapino a vendere i boccali con il Santo.”
Galletti e altre ceramiche fischianti
Ovviamente la produzione di
ceramiche popolari di Rapino comprendeva i fischietti, realizzati nelle botteghe
locali già a partire dall’800.
Grosso: “Bene o male tutte le famiglie di ceramisti di Rapino facevano i fischietti.
I primi che si vedono a Rapino sono quelli dei Bontempo: la loro bottega già
nel 1800 faceva fischietti, con Lorenzo Bontempo e poi con Andrea.”
Il galletto è senza alcun dubbio
il fischietto più diffuso e riconoscibile di Rapino, ma in realtà la gamma di soggetti
realizzati nelle varie botteghe è piuttosto vasta. Non mancano forme di animali
diversi dal gallo, né figure antropomorfe come pastori e cavalieri. Vi erano
poi fischietti religiosi: l’Abruzzo è infatti una delle poche regioni italiane
in cui la devozione popolare si esprimeva attraverso statuine di santi e
madonne con il fischio.[3] E’ In
fine documentata la produzione di fischietti ad acqua, campanelle fischianti,
trombette, flauti, ocarine.
Bontempo: “Il gallo è praticamente il fischietto tipico. Poi si facevano i gufi,
il tacchino, l’uccellino. Ma anche le
pastorelle, i pastorelli e i santi. San Rocco poi è tipico perché lo facevano
per la famosa festa. In quell’occasione, oltre ai boccali si vendevano i
giocattoli per i bambini come le campanelle e i fischietti.”
Grosso: “A Rapino il fischietto ha prevalentemente la forma di animaletto, di
galletto soprattutto. Si facevano pure fischietti ad acqua, ed erano vasetti
realizzati al tornio che riproducevano le brocche tipiche. Poi si applicava il
fischietto su un lato e si decorava con un uccellino posato sulla bocca del
vasetto. Li facevano soprattutto Andrea Bontempo e Silvio Vitacolonna.”
Nonostante si trattasse di
semplici giocattoli popolari, che dovevano avere un costo molto contenuto, i fischietti di Rapino venivano sempre smaltati.
Lo stesso avveniva d’altronde a Castelli e Loreto Aprutino, tanto da poter affermare
che la smaltatura è una delle caratteristiche distintive del fischietto
abruzzese.[4]
Secondo le ricercatrici del Museo
Nazionale di Arti e Tradizioni popolari[5]
questa particolarità è dovuta al fatto che in Abruzzo i fischietti fossero
realizzati da veri e propri ceramisti - e non da semplici vasai, come di solito avveniva in
altre regioni italiane. I maestri ceramisti erano dunque portati per motivi
estetici e deformazione professionale a usare tecniche più elaborate e
dispendiose, anche a discapito della praticità.
fischietto religioso di Amato Bontempo (coll. Museo dei Cuchi) |
Grosso: “I fischietti venivano
sempre smaltati, quindi bisognava anche fare 2 cotture.”
La decorazione a smalto era
ovviamente essenziale: nel caso dei galletti si trattava per lo più di poche
pennellate per rappresentare il piumaggio o di un punto cerchiato a raffigurare
l’occhio.
Altra caratteristica dei
fischietti abruzzesi sta nel fatto che il modulo sonoro è quasi sempre aggiunto
alla figura, spesso innestandolo sul piedistallo che fa da base al fischietto. Rari
sono invece i fischietti “globulari”, ovvero le figure in cui il corpo del
fischietto è cavo e fa da cassa di risonanza.[6]
Grosso: “Il fischietto era applicato. Era un corpo estraneo, aggiunto alla
figura. Generalmente era applicato sulla base, in posizione laterale o
posteriore.“
La funzione dei fischietti era in
primo luogo quella di giocattoli per bambini, e in qualche caso si trattava
anche di un dono di corteggiamento. In entrambi i casi, la commercializzazione
avveniva principalmente in occasione delle fiere. In particolare, erano 3
durante l’anno le feste in cui era possibile smerciare un numero abbastanza
alto di fischietti ed altri giocattoli in terracotta:
Grosso: “A Rapino i fischietti erano quasi esclusivamente un giocattolo che si
dava ai bambini. E solo in qualche occasione diventavano doni per innamorati.
Le occasioni per vendere i fischietti erano tre durante l’anno: la
festa della Trinità a Chieti - che si teneva a giugno - quella di Sant’Egidio a
Lanciano - del 31 agosto - e quella di San Rocco a Roccamontepiano. Quella di
Sant’Egidio era forse la più importante, infatti la chiamavano anche la fiera
delle Campanelle e del Giocattolo. Ma in tutte queste occasioni si vendevano campanelle
e soprattutto fischietti. Inoltre sia alla Trinità sia a Sant’Egidio c’era questo
scambio di doni tra innamorati: lui regalava a lei il galletto e lei ricambiava
con una campanella.”
Ai fischietti rapinesi a forma di
gallo è dedicata la monografia di Vito Giovannelli “I galletti con il fischio
delle botteghe di Rapino”.[7] La pubblicazione
prende in esame e confronta i galli realizzati dalle diverse botteghe e da
varie generazioni di ceramisti di Rapino, traendone alcuni spunti interessanti.
il Maestro Amato Bontempo nella bottega di Francavilla |
Dall’osservazione attenta dei
pezzi, Giovannelli ricava inoltre una serie di informazioni sulle tecniche di
modellazione alle quali i ceramisti ricorrevano. Anzitutto si può distinguere
tra galli modellati interamente a mano e altri realizzati con l’aiuto di
stampi. Per quanto riguarda i primi, sui pezzi si notano ancora le impronte
provocate dalla pressione di pollice ed indice del ceramista. Si trattava di “pizzichi”
assestati in maniera sapiente, e che servivano a “dar vita” all’animale alzandogli
un poco la cresta, sollevando la coda, o evidenziando le zampe sul piedistallo.
Sono proprio impronte digitali, correzioni, piccole imperfezioni a rivelare che
si tratta di pezzi fatti a mano. Anche i pezzi ricavati da stampi di gesso venivano
comunque ritoccati a mano: ad esempio per rendere il piumaggio, alcuni
particolari anatomici come la coda venivano graffiati utilizzando un ferro a
sezione circolare.
L’abitudine di intervenire sui
fischietti realizzati a stampo, perfezionandoli e personalizzandoli, è
confermata dalle testimonianze da noi direttamente raccolte.
Grosso: “Normalmente i galletti venivano fatti a stampo. Poi però i ceramisti li
modificavano a mano, ad esempio girandogli il collo, la coda, eccetera.”
Bontempo: “Fare il fischietto è un lavoro lungo. Prima bisogna modellarli, perché
lo stampo ti da il grosso, ma poi vanno rilavorati. Poi bisogna farli
fischiare, e ci perdi tempo. Poi bisogna cuocerli. Poi smaltarli, e ricuocerli.
non si finisce mai: mentre faccio un fischietto posso fare 10 piatti.”
Maestri ceramisti e umili artigiani
fischietto di Silvio Vitacolonna (coll. Museo dei Cuchi) |
Anche moglie e figli dei
ceramisti contribuivano alla produzione dei fischietti. Lo attesta una testimonianza
riportata dalla già citata ricerca del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni
Popolari, [9]
quella della decoratrice Antonietta De Nardis:“Io sono figlia di ceramisti, moglie di ceramisti, ed ho tenuto bottega
fino a 5 anni fa. Quando era vivo mio marito io lo aiutavo sempre. I decori li
facevo sempre io sui piatti, sui vasi, sulle brocche. Facevo anche i fischietti o più precisamente li coloravo. Spesso mi aiutavano
i bambini. Noi facevamo il galletto come quello che di solito è dipinto sui
piatti e sulle brocche (…)I fischietti però si facevano nei momenti morti per
venderli alla fiera di Sant’Egidio a Lanciano o in qualche altra festa. Non è
che si perdeva tempo a fare un forno solo di fischietti.”
Quando invece erano i Maestri ceramisti
a dedicarsi in prima persona alla produzione di fischietti, questo avveniva
solo nei tempi morti, e senza togliere eccessivo spazio alla produzione più
importante e remunerativa. Secondo varie testimonianze, per modellare i
fischietti si utilizzavano le ore di veglia davanti alla fornace per la cottura
dei pezzi. Lo conferma ad esempio Beniamino Vitacolonna,[10] maestro
scomparso nel 1991. Oltre ad essere rinomato per le brocche di San Rocco,
questo ceramista raccontava di aver realizzato anche tantissimi fischietti,
modellati “a
mano nei tempi liberi della produzione principale, per esempio quando stavamo a
controllare la cottura che poteva durare anche due giorni. Perché il caldo
faceva venire sonno, e modellando il galletto io riuscivo a restare sveglio.
Dopo era mia moglie che quando aveva un
momento libero li dipingeva.”
fischietto di Beniamino Vitacolonna (coll. Grosso) |
Vi erano però delle eccezioni alla
regola secondo la quale i Maestri ceramisti dedicavano ai fischietti una parte
marginale del proprio tempo. Alcuni ceramisti finivano infatti per
specializzarsi nella produzione di questi ed altri giocattoli in terracotta. Ce
lo spiega Cerare Grosso: “Alcuni
artigiani mostravano, comunque, una particolare passione per la realizzazione
di fischietti e di altri giocattoli in ceramica, come ad esempio Silvio
Vitacolonna.
Altre volte erano i ceramisti
meno dotati a dedicarsi prevalentemente ai fischietti ed agli altri
giocattolii. Questi personaggi avevano quindi l’ingegno di recuperare proprio
con queste cose: avevano alcune fiere durante l’anno dove poterli vendere, e
questo dava loro una discreta entrata.”
Declino e rinascita delle botteghe e dei fischietti
Dagli anni ’50 si verificò in
tutta Italia una crisi della produzione ceramica. A Rapino il declino fu
particolarmente veloce, tanto che nel giro di pochi anni le botteghe
diminuirono in maniera drastica.
Grosso: “A Rapino come altrove, il settore della Ceramica è andato in crisi nel
secondo dopoguerra. Le ceramiche di uso quotidiano sono state sostituite dalla
produzione industriale, che faceva un prodotto migliore e anche a costo
inferiore. E gli artigiani nostri non sono stati in grado di fare il salto,
cioè di trasformare la loro produzione da oggetto d’uso in oggetto artistico.
Gli artigiani non erano pronti culturalmente a fare questo salto, né nessuno
degli amministratori di allora li ha aiutati. Quindi arrivò la crisi e la
chiusura delle botteghe.
I Bozzelli hanno smesso dagli anni ’50 di fare ceramica a Rapino. I
Bontempo si sono trasferiti, e dagli anni ’60 hanno una manifattura di ceramica
a Francavilla. Anche dei Vitacolonna non è rimasto nessuno.”
Dopo che a Rapino tutte le
botteghe di più antica tradizione avevano chiuso i battenti, alcune famiglie di
ceramisti riuscirono a continuare ancora a lungo la loro attività trasferendola
in altri paesi dell’Abruzzo. Si tratta di un fatto forse paradossale, ma che
contribuì in qualche modo a preservare la continuità della tradizione ceramica
rapinese.
I Bontempo spostarono a
Francavilla al Mare la loro bottega, condotta tutt’ora dal maestro Amato. Il
maestro Gabriele Vitacolonna ha invece portato avanti la sua attività a
Guardiagrele fino ad anni recenti, quando ha smesso per ragioni di età.
fischietto di Gabriele Vitacolonna (coll. Museo dei Cuchi) |
Ovviamente alla crisi delle
botteghe di ceramica si accompagnò il declino della produzione di
fischietti, che subivano la concorrenza
dei nuovi giocattoli in plastica. Entro la metà degli anni ’70 non era rimasto più
nessuno a Rapino a modellare i tradizionali galletti col fischio.
Grosso: “La tradizione del fischietto è scomparsa quando è scomparso l’ultimo
ceramista che li faceva, Silvio Vitacolonna. Come
ho detto, lui si era molto dedicato a fare fischietti e altri giocattoli.”
Nei decenni successivi la ceramica
popolare ricominciò però ad acquistare interesse, per lo meno per una cerchia
di appassionati. Anche rispetto ai fischietti in terracotta, negli anni ’90 si
era ormai affermato in tutta Italia un movimento di rivalutazione, con la
pubblicazione di monografie, la realizzazione di rassegne e lo sviluppo di un
collezionismo specializzato.
Appassionati e ricercatori non
tardarono a focalizzare la loro attenzione anche su Rapino, finendo per stimolare
una ripresa della produzione. La rinascita dei fischietti rapinesi ha persino
una data precisa, quella dell’8 maggio 1994: è questo il giorno in cui fu
organizzato il convegno durante il quale Vito Giovannelli presentò la sua
monografia sui galletti di Rapino.[11]
Grosso: “Nel 1994 nessuno faceva più fischietti. Erano rimasti solo un ricordo.
Poi la presentazione del libro di Giovannelli ha risvegliato l’interesse.
Durante la presentazione del libro, realizzò alcuni fischietti Giuseppe
D’Amore. A Rapino era l’ultimo artigiano ancora in vita ad aver fatto
fischietti da giovane. Eppure nel libro non era stato nemmeno citato perché
nessuno aveva segnalato questo artigiano a Giovannelli.”
Un ceramista che ha contribuito
molto a rilanciare la produzione di fischietti è stato Gabriele Vitacolonna. In
tarda età questo Maestro si è dedicato molto ai fischietti, conquistando un
pubblico di appassionati e collezionisti. Pur prendendo le mosse dai soggetti
tipici dei fischietti di Rapino – quelli appresi dal Padre – ne ha ampliato la
gamma, realizzando un bestiario fantastico di ceramiche fischianti. Caratteristica
dei fischietti di Gabriele Vitacolonna è la grande attenzione posta alla
decorazione, sempre vivace e brillante e che utilizza raffinati accostamenti di
colori.[12]
stampo in gesso della bottega Bontempo (coll. Museo dei Cuchi) |
Anche le nuove generazioni di
ceramisti rapinesi hanno preso a realizzare fischietti, che ora sono nuovamente
presenti in varie botteghe di ceramica.
Atipico è poi il percorso di Cesare
Grosso, dipendente regionale con una grande passione per la ceramica. Solo in
età adulta si è interessato ai fischietti, ed ha cominciato a produrne a
livello amatoriale. Alcuni dei suoi pezzi riprendono le forme tipiche dei
fischietti rapinesi, mentre in altri casi realizza forme di sua invenzione. Nel
giro di pochi anni è diventato un produttore apprezzato non solo a livello
locale, entrando nelle principali collezioni e ricevendo riconoscimenti
importanti nell’ambito delle rassegne dedicate alla ceramica fischiante.[13]
Grosso: “Il fischietto è un oggetto della mia infanzia, come ho già detto.
Poi, a distanza di 30 - 40 anni, quel convegno in cui parlava di ceramica
fischiante mi ha risvegliato la memoria. Mi sono detto: perché non rifarli? Io
non mi considero assolutamente portato questa arte, eppure i miei fischietti
hanno riscosso apprezzamenti per me lusinghieri.”
Il lavoro nelle botteghe
Non si potrebbe trovare un
testimone migliore di Amato Bontempo per farsi raccontare come si svolgeva il
ciclo di produzione della ceramica nelle botteghe di Rapino. Il Maestro può
essere infatti definito un ceramista a cavallo tra due epoche: sin da bambino –
negli anni ’30 e ’40 – ha svolto il suo apprendistato nella bottega di
famiglia, e in seguito ha frequentato l’Istituto d’Arte di Faenza. Per questo
oggi Amato Bontempo padroneggia le tecniche di produzione contemporanee ma
conosce a fondo quelle desuete tramandate nelle antiche botteghe di generazione
in generazione.
Il suo racconto di come si faceva
ceramica a Rapino fino agli anni ’50 parte ovviamente dall’estrazione e
preparazione dell’argilla: “Mi ricordo
che sia la preparazione dell’argilla che dello smalto erano lavori da schiavi.
Per procurarsi l’argilla si ingaggiavano dei contadini e si andava a
zappare lungo il fiume Versola, dove ci sono delle zone argillose. Lì si
estraeva un’argilla che naturalmente era ricca di impurità. Per depurarla
bisognava riportarla allo stato liquido, quindi facevano asciugare la terra
arrivata dalla cava, la sminuzzavano con dei magli di legno, poi la mettevano a
bagno. A quel punto la setacciavano. Poi bisognava farla tornare solida, quindi
aggiungevano alla terra liquida uno strato di argilla secca preventivamente
setacciata e seccata, e impastavamo tutto con i piedi. Quando avevano fatto
questa montagna di terra la passavano in una impastatrice rudimentale. Era un
rullo come quelli per fare la pasta, girato a mano con la manovella.”
La modellatura dei pezzi avveniva
a seconda dei casi al tornio o con l’ausilio di stampi: “I pezzi si modellavano con i torni a pedale. Il torniante a casa mia lo
faceva principalmente mio zio, zio Lorenzo che si dedicava alla tornitura. E
poi c’erano operai che andavano e venivano.
Per i piatti invece si adoperavano gli stampi di gesso. Si prende lo stampo di gesso, gli si mette la
lastra di argilla sopra, si poggia sul tornio, si abbassa la bascula, e una
sagoma di ferro dà la sagoma esterna al piatto. Poi per effetto
dell’assorbimento del gesso il piatto si asciuga, si estrae dallo stampo, si
rifinisce e si mette all’essiccamento.”
Per la prima e la seconda cottura
si utilizzavano ovviamente le grandi fornaci alimentate a legna, che erano costruite
dagli stessi ceramisti. La parte più alta della fornace – denominata
fornaciotto – veniva utilizzata per accelerare l’essiccazione dei pezzi.
fischietto di Amato Bontempo (coll. Museo dei Cuchi) |
Secondo me i ceramisti che costruivano questi forni non erano
artigiani, erano ingegneri! Non era una cosa semplice, bisognava fare in modo
che i tiraggi funzionassero.
La fornace a legna era costituita dalla zona in cui si faceva fuoco, quella
di cottura, e in più la parte alta con il fornaciotto, dove passavano i fumi e si
metteva la roba ad essiccare.
Quindi nella prima camera sotterranea si faceva fuoco, poi al piano
terra c’era il reparto cottura, dove si metteva a cuocere il carico, e in fine la
parte alta dove passavano i fumi attraverso la merce umida che così asciugava.”
Grosso: “I fischietti servivano anche per riempire i forni. Perché il forno a
legna per rendere bene doveva essere pieno in ogni sua parte. Quindi questi
fischietti si mettevano anche negli spazi minimi.”
Il procedimento di cottura
richiedeva una grande abilità. Per non rischiare di danneggiare il contenuto
della fornace bisognava sapere precisamente quando era il momento di far salire
la temperatura e con quale velocità. Il tutto ovviamente veniva fatto ricorrendo
unicamente all’esperienza e all’istinto dei Maestri, e senza l’ausilio di
rilevatori della temperatura.
Bontempo: “La prima cottura che trasforma la creta in biscotto si fa intorno ai
980-1000 gradi. Sembra una cottura semplice, perché uno non si deve preoccupare
di non rovinare lo smalto. Però il ciclo di cottura deve essere molto scrupoloso
perché ci sono delle fasi molto importanti. Per esempio sui 500 gradi bisogna
andare piano perché ci sta la trasformazione del quarzo, la cristallizzazione,
e allora i pezzi si possono spaccare. Gli artigiani di una volta sapevano che
bisognava fare così, ma non si rendevano bene conto del perché. Io invece ho
avuto la fortuna di frequentare l’istituto tecnico di Faenza dove ti spiegano
come avvengono certi processi.
Una volta estratto l’oggetto ci si dipinge sopra e si fa la seconda
cottura, in cui si arriva a una temperatura leggermente inferiore della prima.
Anche in questo caso il processo è molto delicato. Bisogna arrivare alla
temperatura di fusione giusta dello smalto e del colore. Si può sballare al
massimo di 10-20 gradi, perché altrimenti i colori si muovono tutti.
Quando al posto dei forni a legna si passò al forno elettrico, per limitare le spese i Bontempo lo
presero in comune con i Bozzelli. Un
giorno cuoceva uno, l’altro giorno cuoceva quell’altro. ”
Per quanto riguarda la fase della
smaltatura, l’immediato dopoguerra segnò un arretramento nelle tecniche di
produzione. Per alcuni anni le fabbriche che rifornivano le botteghe non
ricominciarono la loro attività, e i ceramisti si videro costretti a produrre
gli smalti in proprio, ricorrendo a procedimenti ormai desueti. Il Maestro
Bontempo ricorda che questa rappresentava in quegli anni una delle fasi di
lavorazione più faticose: “Quello che era
complicato assai era fare gli smalti. Mi ricordo che nel dopoguerra tutte le
fabbriche produttrici erano chiuse ed i trasporti funzionavano male. Quindi per
lavorare gli artigiani facevano il marzacotto. Non facevano altro che prendere
la sabbia e ci mettevano il piombo, il minio, in mezzo. Li mettevano in dei
contenitori di terracotta all’interno della camera di fuoco della fornace, in
modo da portarli alla temperatura di fusione. Una volta estratta questa massa
fusa dentro questi contenitori, con un martellino dovevano togliere tutto il
cotto che era il contenitore esterno, e spesso qualcuno ci lasciava il dito.
Una volta pulita, si sminuzzava la massa e poi bisognava macinarla per
riportarla allo stato liquido e potere smaltare. E ci si aggiungeva un 5-6% di
ossido di stagno che gli dava l’opacizzazione, perché altrimenti sarebbe
vernice trasparente. Questo ossido di stagno subito dopo la guerra si faceva
con le grondaie di stagno. Si ossidavano al fuoco in una specie di fornaciotto
per ricavare lo stagno.
Il fiume rappresentava un
elemento indispensabile per il ciclo di produzione ceramica. Se le sue sponde
fornivano l’argilla, le sue acque venivano utilizzate per alimentare i mulini
che dovevano macinare gli smalti. Questo sistema fu utilizzato tra ‘800 e primo
‘900, ma tornò in uso dopo la seconda guerra mondiale, dato che a Rapino la
linea della elettrica tardava a essere ripristinata.
Bontempo: “Per 2 anni buoni la corrente non è tornata a Rapino, quindi per
macinare questo smalto si utilizzavano i mulini ad acqua. Erano costituiti da
delle botti di legno con un macinino di pietra e delle pale sotto che giravano per la
pressione dell’acqua. Lo smalto veniva lasciato a macinare 3 o 4 giorni, e
quando era pronto si rimetteva nei recipienti ed a spalla lo si portava di
sopra nel laboratorio. Tutto questo fino al ‘49-50, quando si sono riattivate i
trasporti e le fabbriche che facevano gli smalti. Da allora è stato tutto un
po’ più semplice, ma quei 3-4 anni mi
ricordo che ricominciare a lavorare la ceramica fu un lavoro proprio duro.”
fischietto ad acqua di Cesare Grosso (foto G. Croce) |
Cesare Grosso ci ricorda invece
come gli smalti prodotti nelle diverse botteghe avessero delle piccole
differenze, riconoscibili da occhio esperto. I ceramisti custodivano
gelosamente la propria ricetta per la composizione dei diversi colori, e la
trasmettevano solo ai propri figli. Si tratta ovviamente di sfumature che
andarono a scomparire con l’avvento degli smalti prodotti a livello industriale:
“Ogni artigiano aveva la sua
particolarità nel creare gli smalti. Facevano delle misture con l’aggiunta di
qualche ingrediente segreto. Questo dava soprattutto ai rossi e ai verdi un
timbro particolare, e li rendeva riconoscibili.”
La produzione odierna
Oggi a Rapino la ceramica non è
più un settore trainante dell’economia. Eppure qualche segnale di ripresa c’è
stato rispetto alla crisi che tra gli anni ’50 e 60 portò alla chiusura di
praticamente tutte le botteghe. Passeggiando per il paese è possibile notare
varie botteghe in attività, anche se le nuove generazioni di ceramisti fanno
venire da fuori i pezzi semilavorati e si dedicano esclusivamente alla
decorazione.
Grosso: “Ora pian piano la ceramica di Rapino si sta riprendendo. Anche se non ci
sono più i ceramisti propriamente detti. Si tratta prevalentemente di
decoratrici, la maggior parte donne. Acquistano gli oggetti già fatti da
Deruta, da Castelli, o da dove capita, e lo decorano alla maniera di Rapino.
Questo è un motivo di confusione, perché ad esempio io, che colleziono
ceramiche, riconosco la ceramica rapinose antica più dalla forma che dalla
decorazione, perché la forma è molto tipica e identifica una bottega. Mentre
oggi è tutto omologato.
Per spiegare questa cosa sono solito dire con una punta di ironia che
l’unico ceramista di Rapino sono io, perché io parto dall’argilla e arrivo al
risultato finale.”
Ed in effetti, pur non essendo un
ceramista di formazione, Cesare Grosso rappresenta oggi il punto di riferimento
principale a Rapino - per lo meno per quanto riguarda i fischietti. Continua a
realizzare con passione i suoi pezzi, ma anche a fornire informazioni preziose
agli appassionati ed a partecipare a rassegne e manifestazioni dedicate alla
ceramica fischiante: “Per me appartenere
a questo mondo dei fischietti è una soddisfazione enorme. Grazie ad un
oggettino così piccolo sono entrato in collegamento con collezionisti e artisti
di fama internazionale. Quindi il fischietto mi ha dato l’occasione di condividere
questa passione con tantissima gente. In molti casi ne sono nate amicizie
solide e durature, ad esempio in Puglia, in Umbria, in Toscana. Grazie al
fischietto ho conosciuto un grande artista come Federico Bonaldi. C un gruppo
di intenditori di ceramiche sonore abbiamo dato vita a una associazione che si
chiama Anemos e che ha tra i suoi obiettivi la rivalutazione della ceramica
fischiante.”
Per quanto riguarda le famiglie
di antica tradizione ceramica, come abbiamo detto, sono già alcuni decenni che
queste hanno continuato ad operare solo al di fuori del paese d’origine.
Data la recente chiusura della
bottega di Gabriele Vitacolonna a Guardiagrele, e la scomparsa del fratello
Antonino - che ha operato per tantissimi anni a L’Aquila - è Amato Bontempo l’ultimo esponente delle
dinastie ceramisti rapinesi ancora in attività. Nella sua bottega di
Francavilla al Mare è possibile trovare delle splendide ceramiche decorate con il
tipico motivo del fioraccio.
Bontempo: “Nel 1955, dopo essermi diplomato alla scuola d’arte a Faenza, trovai
lavoro in una fabbrica di porcellana a Varese. Ma ero figlio unico, e mio Padre
mi pregò di seguirlo a Francavilla. Sono passati 50 anni e siamo ancora qui,
ringraziando Iddio.
Ancora oggi i pezzi li facciamo intermente noi, partendo dall’argilla. Anche
se sarebbe più conveniente comprare i pezzi grezzi.
Per i pezzi che si fanno al tornio chiamiamo occasionalmente un
torniante, mentre per altre cose, come i piatti, utilizziamo stampi nostri. C’è
gente che viene 40 anni dopo aver preso il servizio e trova ancora la stessa
forma.
C’è un ragazzo che si dedica esclusivamente agli stampi e poi siamo in 3 a dipingere, io e altre 2
ragazze. Il nostro cavallo di battaglia è il fioraccio. Si fa pure a Castelli,
però il nostro è molto più fresco, perché è fatto di getto, con un’unica
pennellata
Sono l’unico della famiglia rimasto a fare questo lavoro… fino a quando
non lo so.”
[1]
Fabio Cappelletti, discendente
dei famosi maiolicari di Castelli, si trasferisce a Rapino nella prima metà del
XIX secolo, e sempre in quei decenni Raffaele
Bozzelli darà origine alla prima bottega di ceramiche rapinesi. La presenza
della ceramica si consolida tuttavia nei decenni successivi. Si vedano ad esempio
Vincenzo Franceschilli ed al., La
Ceramica di Rapino e i Bontempo, Edizioni Ferentum, 1994 e
Diego Troiano e Van Verrocchio, “Le più antiche ceramiche di Rapino” in Azulejos - rivista di studi ceramici, n° 2 2005.
[2] La
storia di questa famiglia di ceramisti è stata ampiamente documentata da V.
Franceschilli, Op. Cit.
[3] Tra i santi col fischio legati alle
diverse fiere patronali vi erano San Giustino a Chieti, San Cetteo a Pescara,
San Rocco a Roccamontepiano, Santa Lucia a Cepagatti, San Nicola a Pollutri,
San Cesidio a Trasacco, Santa Reparata ad Atri, Santi Medici a Roccascalenga,
Santi Martiri a Celano. Fischietti con le sembianze di madonne e santi erano posti
a protezione di stalle, botteghe, fattorie e abitazioni. Lo attesta Vito
Giovannelli, “Il fischietto tradizionale abruzzese. Particolarità e raffronti”,
in Salvatore Cardello (cur.), Sibilus I, Azienda Autonoma di Soggiorno e
Turismo di Caltagirone, 1993.
Rispetto alle altre regioni italiane, i fischietti
devozionali sono presenti ovviamente a Caltagirone – in Sicilia – ma anche in
Puglia e nelle Marche.
[4] Fanno
eccezione i fischietti di Anversa, che secondo la testimonianza di Giuseppe
Vecchierelli – da noi raccolta - erano solitamente lasciati grezzi, o al
massimo bagnati nella calce per eliminare le macchie di fuliggine.
[5] Federica Papi e Maria
Concetta Nicolai, “Abruzzo”, in Paola Piangerelli (cur.), La terra, il fuoco,
l’aria, il soffio – la collezione di fischietti di terracotta del Museo
nazionale di Arti e Tradizioni popolari, Edizioni De Luca 1995.
[6] V. Giovannelli
in I galletti con il fischio delle botteghe di Rapino, Amministrazione Comunale
di Rapino, 1994 nota come qualche Maestro più raffinato come Giuseppe Bontempo,
invece di aggiungere il modulo sonoro come un’appendice del fischietto lo
ricavava dalla cavità della statuetta.
[7] Come
vedremo, la pubblicazione stessa e il suo convegno di presentazione hanno dato
il via ad una operazione di rilancio dei fischietti rapinesi.
[8] E’ V. Giovannelli (1994)
che da una parte cita Fanelli e Cirotti e dall’altra ricostruisce la produzione
di fischietti dei vari maestri ceramisti.
[9] F. Papi e M. C. Nicolai,
op. cit.
[10] Anche questa testimonianza
è dei primi anni ’90, e tratta da F. Papi e M. C. Nicolai, op. cit.
[11] Vito Giovannelli, 1994.
[12] F. Papi e M. C. Nicolai,
op. cit.
[13] Nel 2012 ha ad esempio
conseguito il terzo premio e il premio per il fischietto ad acqua nell’ambito
della II Biennale Internazionale del Fischietto “Città di Matera”
[14] V. Giovannelli, op. cit.